Il caso Jamal Khashoggi
Vittoria Boselli
Jamal Khashoggi era uno scrittore e giornalista saudita. Proprio un anno fa, aveva scelto la via dell’esilio, temendo che la propria incolumità fosse messa in pericolo dalla sua attività di giornalista dissidente rispetto al re e al principe ereditario Mohammad bin Salman, e si era trasferito negli Stati Uniti in cui aveva trovato impiego come editorialista del noto quotidiano americano The Washington Post. Tuttavia, lo scorso ottobre, egli si era recato al consolato saudita di Instabul per ottenere alcuni documenti necessari ai fini della sua pratica di divorzio. È proprio questo lo scenario in cui si sono svolti i fatti oggetto di cronaca.
I fatti
Il giornalista è entrato nel consolato il 2 ottobre per un appuntamento richiesto al fine di ottenere il divorzio. Qualche settimana prima, si era già recato in consolato per chiedere l’appuntamento e ne era uscito incolume. La sua fidanzata, Hatice Cengiz (cittadina turca), lo stava aspettando fuori dall’edificio: è stata proprio lei che si è allarmata quando non lo ha visto uscire tre ore dopo il suo ingresso e che ne ha denunciato la scomparsa.
Il giorno stesso dell’omicidio sono arrivati da Riyad due jet privati con 15 funzionari sauditi: tra i passeggeri erano presenti un esperto anatomopatologo, ufficiali delle forze speciali e membri dell’intelligence saudita. Alcuni di loro sono stati visti mentre si dirigevano al consolato saudita prima dell’arrivo di Khashoggi. Inoltre, nonostante avessero prenotato l’albergo per tre notti, sono ripartiti il giorno stesso sui due jet privati, destinazione Riyad.
È notevole che solo i filmati delle videocamere del consolato siano stati cancellati quel giorno: le videocamere esterne al consolato che ne inquadravano l’entrata mostrano Khashoggi che entra nell’edificio, ma non che ne esce. Quello stesso giorno non era neppure presente lo staff turco del consolato in quanto improvvisamente invitato a non presentarsi.
Dopo qualche ora dall’ingresso di Khashoggi, alcune automobili diplomatiche sono uscite dal consolato e si sono dirette alla casa del console saudita, poco distante; sono rimaste a lungo nel garage sotterraneo.
Nel frattempo, un uomo con gli abiti di Khashoggi e che gli assomigliava è stato avvistato mentre usciva dal consolato e vagava per Istanbul. L’uomo è stato identificato come uno dei passeggeri di jet privati e si ritiene che il suo compito fosse quello di simulare l’uscita del giornalista dall’edificio.
È stata ritrovata una valigia in un’auto diplomatica con quelli che si ritengono essere il laptop ed alcuni documenti di Khashoggi. Nella stessa auto c’era anche una maschera tipicamente utilizzata quando si maneggiano sostanze chimiche.
Reazioni internazionali e profili giuridici
La prima dichiarazione da parte delle autorità saudite è stata che Khashoggi aveva lasciato l’edificio da una porta sul retro, respingendo l’ipotesi dell’omicidio dell’uomo all’interno del consolato.
Tuttavia, quando le loro ricostruzioni dell’accaduto sono diventate sempre più inverosimili, è stato comunicato dai sauditi che il giornalista era rimasto ucciso in un interrogatorio finito male e che i responsabili sarebbero stati puniti.
Il 25 ottobre è arrivata un’ultima comunicazione ufficiale da Riyad: l’autorità giudiziaria saudita ha ammesso, in una nota ufficiale del procuratore generale, che si è trattato di un omicidio premeditato. Non è stato però fatto riferimento a chi siano gli indagati.
Dopo più di 10 giorni di tentennamenti, i sauditi hanno dato il permesso alle forze dell’ordine turche di entrare nel consolato per svolgere le indagini. Questa è stata una concessione eccezionale: l’art. 22 co. 3 della Convenzione di Vienna del ’61 sulle relazioni diplomatiche prevede la non sottoponibilità a perquisizione, requisizione, sequestro o esecuzione forzata di quanto presente negli edifici diplomatici di un paese straniero. Il governo saudita non era quindi tenuto a permettere ai detective turchi di accedere al consolato.
Dalla perquisizione è risultato che alcune superfici del consolato fossero state ridipinte in tempi recenti.
In diverse testimonianze anonime di funzionari – sia sauditi che turchi – è emersa come ricostruzione fattuale che il giornalista sia stato interrogato, torturato e poi assassinato. La presenza dell’esperto in medicina forense è stata ipotizzata finalizzata a smembrare il corpo dell’uomo per poterlo mettere in una scatola e portarlo fuori dal paese. Queste informazioni sembrano derivare da alcune registrazioni audio, dalle quali risultano ulteriori macabri dettagli sulle modalità di omicidio.
Risulta inoltre che l’agenzia statunitense NSA sapesse già in anticipo, attraverso intercettazioni, che il principe ereditario saudita stava adoperandosi per attirare Khashoggi in Arabia Saudita per poterlo arrestare.
L’ultima evidenza è stata il ritrovamento di parti del corpo del giornalista nel giardino del console saudita, in fondo ad un pozzo. Diventa così molto difficile per la monarchia negare il coinvolgimento.
Il leader turco Erdogan ha fornito diverse dichiarazioni circa l’omicidio del giornalista: “fonti investigative saudite hanno dichiarato che il cadavere è stato consegnato dal commando a un collaboratore locale dell’Arabia Saudita a Istanbul. Vogliamo sapere chi è questo collaboratore locale. Ammettendo l’omicidio di Khashoggi, l’Arabia Saudita ha compiuto un passo significativo, ma ora ci aspettiamo che tutti i responsabili dal livello più basso al più alto siano trovati e puniti per il brutale omicidio con un processo a Istanbul”.
La vicenda acquisisce quindi un risvolto interessante dal punto di vista del diritto internazionale. La già citata Convenzione di Vienna del ’61 prevede all’art. 31 l’immunità degli agenti diplomatici dalla giurisdizione penale dello stato accreditatario (cioè, dello stato ospitante). Leggendo questa disposizione risulta lampante l’inadeguatezza dell’affermazione di Erdogan: non soltanto quanto avviene all’interno del consolato non può essere sindacato, ma addirittura si prevede una piena immunità giurisdizionale per chi fa parte dello staff diplomatico.
Sembrerebbe quindi che la competenza penale sia interamente in capo allo Stato saudita. Esiste la probabilità che questo porti ad una purga verso i presunti responsabili, richiesta da chi ha presumibilmente dato l’ordine che ha portato all’assassinio, per farne capri espiatori.
Tuttavia, l’art. 41 co. 1 della Convenzione prevede che chi gode dei privilegi e delle immunità diplomatiche sia tenuto “a rispettare le leggi e i regolamenti dello stato accreditatario”. Al co. 3 si specifica ulteriormente, prevedendo richiedendo che “le stanze della missione non siano adoperate in maniera incompatibile con le funzioni della missione stessa”. Torturare e uccidere un uomo, nonché occultarne il cadavere, possono essere considerati comportamenti rispettosi di quanto previsto dalla legge turca?
Sembra quindi che ci troviamo di fronte ad una antinomia: se da una parte i membri di una missione diplomatica (come in questo caso i presunti responsabili del crimine) godono di piena immunità penale, dall’altra parte le azioni per cui sono indagati sono certamente contrarie a quanto previsto dall’ordinamento turco. Il risultato è un’impossibilità per lo stato accreditatario di provvedere a punire gli autori dell’azione contraria non solo alla legge nazionale, ma anche alla Convenzione di Vienna.
Ci sono due possibili soluzioni: una viene prevista dalla Convenzione stessa all’art. 32 co.1, cioè l’espressa rinuncia all’immunità giurisdizionale degli agenti diplomatici. Pare però improbabile che questo possa accadere, dal momento che gli stessi indagati dovrebbero decidere di essere giudicati dal Tribunale di Istanbul.
L’altra ipotesi è già stata adoperata in passato nell’ambito dei rapporti internazionali: gli Stati interessati dal reato possono applicare sanzioni all’Arabia Saudita in modo da costringere questa a svolgere un giusto processo per i crimini in oggetto. Ad esempio, è stata da alcuni Stati profilata la possibilità di sospendere la vendita di armi all’Arabia Saudita. Sembra tuttavia che, stanti le attuali dichiarazioni delle autorità saudite, non sarà necessario provvedere ad eventuali sanzioni, dal momento che perfino il principe ereditario si è mostrato predisposto a indagare e perseguire i presunti criminali.
È indubbio che in questi casi sia fondamentale perseguire il mandante ancora più che l’esecutore materiale del reato. Questa considerazione solleva perplessità circa la possibilità che un eventuale processo si riveli una farsa: pare evidente che in questo caso l’ordine sia venuto molto dall’alto, così in alto che sarà probabilmente impossibile punire i veri responsabili.