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La rilevanza del tempo nel reato di violenza sessuale: c'è un momento "giusto" per denunciare?

di Maria Chiara Minardi

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Il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.) rientra tra le ipotesi tassative per le quali il legislatore ha raddoppiato il termine prescrizionale. Inoltre, la procedibilità di tale reato è subordinata alla proposizione della querela da parte della persona offesa entro un termine che il c.d. Codice Rosso ha esteso a 12 mesi. Entro i limiti temporali così stabiliti dal legislatore, è possibile affermare che vi sia un tempo ‘giusto’ per denunciare? Da cosa discende una tale convinzione?

L’istituto della prescrizione e la sua applicazione al reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.)

Il nostro ordinamento prevede l’istituto della prescrizione (artt. 157 e ss. c.p.) in ragione del venir meno dell’interesse pubblico alla repressione del reato quando dalla commissione del fatto sia decorso un tempo proporzionato alla sua gravità, la quale viene desunta dalla pena edittale. Infatti, col tempo l’esigenza della punizione risulta attenuata e matura un diritto all’oblio per l’autore del reato. Esistono, tuttavia, reati imprescrittibili, per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti, e reati di fatto imprescrittibili, previsti dall’art. 51, co. 3 bis e co. 3 quater c.p.p., per i quali non vi è alcun limite al prolungamento del tempo necessario a prescrivere.

Due recenti riforme hanno interessato la prescrizione del reato: la riforma Orlando (2017) e la riforma Bonafede (2019, con decorrenza prevista dal 1° gennaio 2020). Entrambe muovono dalla costatazione che, dopo l’instaurazione del giudizio, la fase processuale più esposta al rischio della prescrizione del reato è il giudizio d’appello. 

In particolare, la riforma Orlando concedeva tre anni in più per arrivare a una sentenza definitiva, prevedendo due eventuali e successivi periodi di sospensione della prescrizione dopo la condanna in primo e in secondo grado, non superiori ad un anno e sei mesi ciascuno. Tuttavia, era previsto che la sospensione operasse solo in caso di condanna confermata nel grado successivo, determinando così una diversificazione del termine di prescrizione del reato per gli assolti e per i condannati in appello.

Tale riforma è stata abrogata dalla riforma Bonafede, la quale ha previsto l’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, senza distinguere tra condanna e assoluzione in primo grado: si è così resa impossibile la prescrizione nei giudizi di impugnazione. Da quanto affermato, emerge il rischio, sotteso alla riforma Bonafede, di un prolungamento della durata dei procedimenti penali.

Il termine necessario a prescrivere un reato è pari al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque non inferiore a sei anni per i delitti e a quattro anni per le contravvenzioni. Tuttavia, l'articolo 157 co.6 c.p. prevede il raddoppio del termine prescrizionale per alcune fattispecie tassative, tra cui il reato di violenza sessuale (art. 609 bis c.p.); tale modifica è stata introdotta dalla l. n. 172/2012, entrata in vigore dal 23 ottobre 2012. Pertanto, il termine prescrizionale così determinato è applicabile soltanto ai reati di violenza sessuale commessi successivamente all'entrata in vigore della modifica introdotta dalla citata legge. Se ne desume che, se commessi anteriormente alla data indicata, tali reati si considereranno prescritti in base al parametro temporale del massimo edittale della pena applicabile per quel determinato reato. 

La procedibilità del reato di violenza sessuale  

 

La procedibilità del reato di violenza sessuale è subordinata alla proposizione della querela da parte della persona offesa, sebbene tale reato venga perseguito d’ufficio in caso di ipotesi aggravata (ad esempio, se commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non abbia ancora compiuto diciotto anni). 

La querela è la dichiarazione con la quale la persona offesa dal reato, o il suo legale rappresentante, chiede espressamente che si proceda in ordine ad un fatto previsto dalla legge come reato per il quale non debba procedersi d'ufficio o a fronte di richiesta o istanza. La querela configura una condizione di procedibilità e contiene, contestualmente, l'informazione sul fatto-reato.

Sebbene la questione della procedibilità sia dibattuta all’interno dei movimenti femministi, la precipua finalità di prevedere che sia la vittima a informare l’autorità è quella di tutelare la persona offesa dal pericolo di vittimizzazione secondaria, con ciò intendendosi le conseguenze psicologiche negative derivanti dal contatto tra la vittima e il sistema delle istituzioni (in particolare, con il sistema della giustizia penale). Infatti, la stessa fase di accertamento del reato risulta particolarmente invasiva e potenzialmente vittimizzante. 

Inoltre, l’art. 609 septies c.p., così come modificato dalla l. n. 69/2019 (c.d. Codice Rosso), estende a 12 mesi il termine per la proposizione della querela per il reato di violenza sessuale. In precedenza, il termine per sporgere querela era di sei mesi, dunque già raddoppiato rispetto al termine generale di tre mesi (così aveva stabilito la l. n. 66/1996). 

Il limite temporale di 12 mesi per proporre la querela si giustifica alla luce di una duplice esigenza: la prima è quella di reprimere un’offesa che permanga come attuale; la seconda concerne l’acquisizione delle prove. Infatti, tale reato sovente impone di svolgere accertamenti tecnici irripetibili come perizie mediche nonché l’acquisizione di prove testimoniali, contraddistinte da una maggiore vividezza qualora siano rese ad una esigua distanza temporale dalla commissione del reato.

La querela per violenza sessuale è inoltre irrevocabile: una volta attivato il procedimento penale, essa non può essere ritirata. Tale meccanismo è volto a proteggere i soggetti querelanti da intimidazioni e minacce che potrebbero portare al ritiro della querela, sebbene la prospettiva di un percorso obbligatorio e senza possibilità di ripensamenti costituisca talvolta un deterrente.

C’è un tempo ‘giusto’ per denunciare? 

 

Entro i limiti temporali previsti dal legislatore e finora descritti, non sussiste alcun ulteriore vincolo che imponga alla vittima di denunciare tempestivamente la violenza sessuale subita. Il tempo della consapevolezza e dell'elaborazione è sempre discrezionale. 

Alla base delle mancate denunce per violenza sessuale vi è il timore che questa esperienza non venga riconosciuta o venga minimizzata; talvolta addirittura si attribuisce la responsabilità alla vittima medesima. La colpevolizzazione della vittima è un meccanismo pervasivo e perverso noto come vittimizzazione secondaria (come indicato dalla Convenzione di Istanbul), che opera non soltanto nel contesto sociale, nel giudizio collettivo, nell’opinione pubblica o nei mezzi d’informazione, bensì anche nei tribunali.

Inoltre, spesso la vittima non realizza immediatamente di aver subito una violenza sessuale e ciò si deve al fatto che nella maggior parte dei casi l’aggressore è tutt’altro che sconosciuto. Accade di frequente, infatti, che le violenze si verifichino in ambito familiare. In tali situazioni, la decisione di denunciare appare un vero e proprio atto di coraggio; talvolta la vittima teme di non essere considerata credibile sia dai magistrati che dal suo contesto sociale e ciò ritarda i tempi dello “svelamento dell’abuso”. Tale espressione designa l’intervallo temporale che intercorre tra il fatto e la sua denuncia: è il tempo necessario per svelare a sé stessi ed al mondo di essere stati vittime di una simile violenza ed è un tempo assolutamente soggettivo. 

Tali considerazioni evidenziano la necessità di garantire supporto e ascolto alla vittima da parte di personale specializzato (come psicologi o psichiatri) che fornisca assistenza alla vittima anche al di fuori del circuito processuale. La possibile soluzione non risiede in un approccio burocratico e formale, bensì in una prassi virtuosa basata sulla collaborazione inter istituzionale tra Uffici giudiziari, centri antiviolenza e strutture sanitarie; ciò, insieme con la competenza e la credibilità delle istituzioni, potrebbe alimentare la fiducia delle vittime nelle istituzioni medesime e dunque rappresentare un possibile incentivo alla denuncia di reati di violenza sessuale. 

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