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Rilevanza penale del transfer pricing

Giulia Raona
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Ai sensi dell’art. 110 c.7 TUIR, per la determinazione dei componenti di reddito derivanti da operazioni infragruppo con società residenti in Paesi a fiscalità diverse, si deve far riferimento ai prezzi o alle condizioni che si sarebbero convenuti se l’operazione fosse intervenuta tra soggetti indipendenti in regime di libera concorrenza. 
Il c.d. prezzo di trasferimento è dunque il prezzo, applicato ad un’operazione di trasferimento di beni o servizi, determinato sulla base delle condizioni di mercato che si sarebbero avute se le parti non fossero state appartenenti allo stesso gruppo societario. 
Al contrario, invece, l’abuso di transfer pricing è una tecnica elusiva finalizzata a spostare il reddito da un Paese ad un altro, utilizzata nell’ambito di gruppi societari, per cui le società italiane, in caso di acquisti di beni e servizi dalla società estera, deducono costi maggiori e, in caso di vendite di beni e servizi, dichiarano ricavi minori, rispetto ai parametri di riferimento delle “condizioni di libera concorrenza” e delle “circostanze comparabili”. 
La ratio della disciplina si sostanzia, per l’appunto, nell’evitare che l’imponibile della società venga di fatto spostato in Paesi con un regime fiscale più favorevole. 
La questione giuridica rilevante ai nostri fini è stabilire se da una violazione dell’art. 110 c.7 TUIR possa o meno derivare responsabilità penale ai sensi dell’art. 4 d. lgs. 74/2000.
D’altro canto, fin da subito, la dottrina ha escluso che la condotta di transfer pricing potesse rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 3, che disciplina la fattispecie della “Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”, mentre controversa era la questione relativa all’ambito di applicazione della dichiarazione infedele ex art. 4. Ciononostante, il dibattito a riguardo si è ampiamente affievolito a seguito della modifica dell’art. 4 operata dal d. lgs. 158/2015. 

Secondo la disciplina della dichiarazione infedele, nella sua versione originaria, era punito colui che, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avesse indicato in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi, purché l’imposta evasa fosse superiore a lire duecento milioni e l’ammontare degli elementi attivi sottratti all’imposizione fosse superiore al 10% dell’ammontare degli elementi attivi indicati nella dichiarazione o comunque superiore a lire quattro milioni. 
Seppur non pacifico, la dottrina aveva ritenuto che il termine “fittizi” non potesse ricomprendere l’ipotesi del transfer pricing, nella quale non è discussa l’effettività delle operazioni, non stimate correttamente.

Con la modifica del 2015, il legislatore ha sostituito la formula “elementi passivi fittizi” con “elementi passivi inesistenti”, escludendo definitivamente i costi comunque sostenuti, oltre ad aver introdotto un’ulteriore previsione. Ai sensi del c. 1- bis, infatti, viene esclusa la rilevanza penale nell’ipotesi in cui i criteri di valutazione applicati nel caso di specie vengano enunciati in bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali. 
A seguito della riforma, pertanto, si è ritenuto che il transfer pricing non rientri nell’ambito di applicazione dell’art. 4 d. lgs. 74/2000 per due ordini di ragioni: viene esclusa la rilevanza penale, infatti, innanzitutto, in caso di mera rettifica di costi, comunque effettivi, e in secondo luogo nell’ipotesi in cui il contribuente abbia dato conto dei criteri posti a fondamento della propria valutazione degli elementi attivi e passivi. 

Infine, con la modifica intervenuta ad opera del d.l.26/10/2019 n. 124, la disciplina della dichiarazione infedele ha subito un’ulteriore variazione. La riforma ha operato, infatti, sulle pene edittali, aumentandole, nel minimo, da uno a due anni e, nel massimo, da tre a quattro anni e sei mesi; inoltre, sono state ridotte le soglie di rilevanza penale della condotta, prevedendo, riguardo al valore dell’imposta evasa, una soglia di centomila euro e, per gli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, una soglia di due milioni di euro. 

L’esclusione di punibilità al comma 1-ter è stata mantenuta ma solo nell’ipotesi in cui le valutazioni complessivamente considerate differiscano da quelle corrette in misura inferiore al 10%. A tal proposito, non manca chi si è espresso nel senso di una dilatazione dell’ambito della fattispecie penale, a seguito della recentissima modifica, tale da includere i casi di transfer pricing in cui l’errore nella valutazione sia macroscopico, perché superiore al 10%, a tal punto da non poter essere neanche più definito come errore di valutazione. 

Da un lato, può escludersi quindi la responsabilità penale ai sensi degli art. 3 e 4 d. lgs. 74/2000, in caso di violazione dell’art. 110 c. 7. TUIR, e di conseguenza anche la responsabilità diretta dell’ente ex d. lgs. 231/2001, tenendo in considerazione la fattispecie della dichiarazione infedele (art. 4 d. lgs. 74/2000) non rientra neanche (almeno fino ad oggi) nelle ipotesi tassativamente previste dal d. lgs. 231/2001. 

Dall’altro lato, però, la giurisprudenza di legittimità, si è espressa in relazione alla rilevanza penale del falso valutativo in tema di false comunicazioni sociali, ai sensi dell’art. 2621, così come risultante a seguito della modifica con cui la L. n. 69/2015 ha eliminato negli artt. 2621 e 2622 l’inciso “ancorché oggetto di valutazioni”. La Suprema Corte ha argomentato sia nel senso di escludere la rilevanza del falso valutativo (Cass. Sez. V 16/06/2015 n. 33774, Cass. Sez. V 08/01/2016 n. 6916), sia nel senso di ammetterla (Cass. Sez. V 12/11/2015 n. 890). In questo secondo caso, la Corte ha ritenuto che la formula “ancorché oggetto di valutazione” avesse esclusivamente funzione esplicativa e chiarificatrice del nucleo sostanziale, potendo sostituirsi il termine “ancorché” con “sebbene” o “benché”. Se così inteso, quindi, la soppressione di tale inciso lascia intatta la portata della norma. 

Per ultimo, si sono espresse le Sezioni Unite (Cass. SSUU 27/05/2016, n. 22474 27/05/2016), che hanno, in primis, individuato la ratio degli artt. 2621 e 2622 c.c. nella tutela tanto della veridicità quanto della completezza. Hanno poi ritenuto sussistente il delitto di false comunicazioni sociali, “con riguardo alla esposizione e alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa”, affermando la natura prettamente valutativa del bilancio.

Tale discorso rileva nella misura in cui il bilancio può essere viziato sotto un profilo sia qualitativo sia quantitativo e le falsificazioni quantitative possono certamente derivare da errata imputazione di costi o ricavi. È, pertanto possibile, che venga integrata l’ipotesi di falso, come conseguenza delle politiche di transfer pricing. 

Da ultimo, è necessario affrontare l’argomento del transfer pricing in relazione al reato di riciclaggio. È infatti vero che riciclaggio e evasione fiscale sono legati a doppio filo, tuttavia, nonostante l’ampia formulazione della disposizione penale che identifica il reato-presupposto del riciclaggio nel “delitto non colposo”, è comunque necessario un reato come presupposto. Pertanto, qualora si concluda per l’irrilevanza ai fini penali del transfer pricing tanto ai sensi dell’art. 3 d. lgs. 74/2000, tanto ai sensi dell’art. 4 d. lgs. 74/2000, dovrebbe a fortiori concludersi per l’impossibilità che venga integrato il reato di riciclaggio come conseguenza della violazione dell’art. 110 c. 7 TUIR.

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