
L’impatto giuridico del delitto del Circeo sul reato di violenza sessuale
a cura di Lucia Renda

Il massacro del Circeo non fu soltanto uno dei fatti di cronaca nera più sconvolgenti degli anni Settanta italiani, ma rappresentò anche un importante spartiacque nella storia del femminismo. Infatti, nonostante la prevalente concezione patriarcale e sessista nei confronti della libertà sessuale della donna, in seguito a questo caso il movimento femminista italiano riuscì a modificare la percezione della violenza di genere, sottolineandone l’impatto strutturale e trasversale.
Il procedimento penale che derivò diede il via alla creazione di associazioni riconosciute, che per la prima volta poterono costituirsi parte civile nei processi. Questo fatto di cronaca segnò l’inizio di un lungo percorso che culminò nel riconoscimento, all’interno del Codice penale, della violenza sessuale come reato contro la persona, e non più come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume (L. n. 66 del 15 febbraio 1996).
È il 29 settembre 1975 quando Angelo Izzo e Gianni Guido, giovani della “Roma bene” residenti ai Parioli, invitano Rosaria Lopez e Donatella Colasanti a una festa. Queste ultime hanno 19 e 17 anni e sono due ragazze di Borgata – un quartiere popolare romano della Montagnola. Hanno conosciuto i due giovani il giorno prima e decidono di accettare l’invito e salire sulla loro auto, alle quattro del pomeriggio. Purtroppo a quella festa non arriveranno mai.
Le giovani infatti, con una scusa, vengono condotte in una villa a San Felice Circeo, di proprietà di Andrea Ghira, che lì si unisce al gruppo. Arrivate a destinazione, la situazione tramuta radicalmente: i ragazzi afferrano un’arma e dopo il rifiuto delle ragazze ad avere un rapporto sessuale queste vengono minacciate, percosse e subiscono violenze che si protraggono sino alla sera successiva. Alla fine, Rosaria Lopez viene brutalmente uccisa. Donatella Colasanti, invece, riesce miracolosamente a sopravvivere fingendosi morta: verrà infatti ritrovata, ancora viva, nel bagagliaio dell’auto dei ragazzi da un metronotte.
Il massacro del Circeo può essere definito come un catalizzatore nell’Italia degli anni Settanta, attraversata dal femminismo di seconda ondata: la violenza sessuale irrompe nello spazio pubblico con una forza inedita, grazie alla mobilitazione di migliaia di donne. Nell’ottobre dello stesso anno viene indetta a Roma la prima manifestazione nazionale contro la violenza sessuale, a cui faranno seguito molte altre. L’attenzione dei mass media rimane a lungo costante sui fatti del Circeo.
Inizialmente, il dibattito si focalizza sulla diversa provenienza degli autori e delle vittime, e sulla matrice neofascista dei crimini commessi, piuttosto che sulla misoginia degli autori e sul tema della violenza di genere. Ma forse, per la prima volta, un intero Paese si interroga su uno stupro e un femminicidio.
Quello che provocò il coinvolgimento delle femministe anche nelle aule di tribunale fu il tentativo dell’opinione pubblica di far ricadere la colpa sulla donna: i giornali descrissero i colpevoli come “pazzi” o “mostri” e insinuarono la corresponsabilità delle vittime, accusandole di ingenuità o ambizione sociale e definendo l’episodio come un “festino finito male”. Si discusse perfino della verginità della vittima.
Le femministe reagirono con forza, presenziando al processo, protestando contro le strategie colpevolizzanti e organizzando manifestazioni con lo slogan: “Guido, Izzo, non sono pazzi, sono normali: sono il prodotto dei valori patriarcali”. Questo slogan sintetizzò la lettura femminista della violenza sessuale, che si oppose alla patologizzazione degli imputati e cercò di mettere al centro del dibattito la vera radice del problema: una violenza di genere sistemica, figlia di una cultura patriarcale che per troppo tempo aveva giustificato, minimizzato o taciuto l’oppressione delle donne.
Questi fatti di cronaca mostrarono l’urgenza di un cambiamento all’interno della società italiana e furono la spinta necessaria all’avvio del difficile cammino legislativo verso la modifica del Codice penale volto a considerare i reati di violenza carnale come «reati contro la persona».
Il Codice penale del 1930, vigente tuttora, già negli anni ‘60 e ‘70 disciplinava i delitti di “violenza carnale” e di “atti di libidine”, inserendoli però tra le fattispecie poste a tutela “della libertà sessuale” e, più specificatamente, “della moralità pubblica e del buon costume”.
Questa era una concezione simile quindi a quella del precedente Codice Zanardelli del 1889 e che utilizzava come elemento distintivo la consumazione o meno dell’atto sessuale completo. I tribunali, per accertare il fatto, delegavano alla vittima la ricostruzione dettagliata dell’accaduto, che doveva ripercorre durante udienze rigorosamente pubbliche le tappe dettagliate di un evento traumatico. Quest’ultimo veniva sminuito dall’opinione pubblica, che addossava alla donna la responsabilità di essersi eccessivamente esposta.
Inoltre, i reati di violenza carnale e quelli di atti di libidine violenti erano considerati crimini contro l’onore e la reputazione della famiglia, e contro la potestà familiare del marito o del padre verso la donna vittima di violenza. In altre parole, veniva riconosciuta tutela alla donna soltanto in funzione del suo ruolo nella famiglia, e quindi unicamente come figlia o moglie.
Tornando al nuovo codice Rocco, tali reati continuavano a essere considerati contro la pubblica moralità: ancora una volta si considerava l’onorabilità altrui e non anche la persona che li subiva. La stessa libertà sessuale a cui faceva riferimento il nuovo Codice aveva una connotazione sfocata, tanto che, qualora la vittima non avesse avuto un marito o addirittura fosse stata considerata “di facili costumi”, le pene sarebbero state ridotte.
Prima ancora dell’intervento del legislatore, è stata la giurisprudenza a ridefinire i reati contro la libertà sessuale, adeguandoli all’evoluzione dei valori sociali e al nuovo contesto ideologico della società contemporanea. Dopo questo evento invece, la libertà sessuale è stata riconsiderata da libertà funzionale alla collettività a un diritto strettamente personale, che si riferisce quindi unicamente all’individuo coinvolto riconoscendo quindi un interesse autonomo, dotato di valore esclusivo.
Con la Legge n. 66 del 15 febbraio 1996 questa modifica viene riconosciuta anche a livello legislativo tipizzando il reato di violenza sessuale come delitto contro la persona, e cioè contro la libera autodeterminazione della donna nella propria sfera sessuale.
La riforma pone finalmente l’accento sulla persona in quanto tale, che ha subito la violenza sessuale, mettendo definitivamente da parte quella visione autoritaria e paternalistica che impediva la protezione della donna in quanto persona. La nuova legge del 1996 ha definito un assetto di tutela imperniato sul rispetto della volontà da parte della donna, sulla difesa dell’autodeterminazione della persona, e soprattutto in ambito sessuale.
La violenza sessuale si configura quando chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringa taluno a compiere o subire atti sessuali, pena la reclusione da sei a dodici anni.
Alla stessa pena soggiace chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali:
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abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto;
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traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona.
Nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non eccedente i due terzi.
La fattispecie di violenza sessuale configura un reato commissivo a forma vincolata, in quanto il legislatore richiede che la condotta venga realizzata con determinate modalità: in particolare, questo può avvenire con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità.
Il reato in esame è poi un reato d'evento, in quanto il legislatore descrive un accadimento: la costrizione a compiere o subire un atto sessuale spazialmente e temporalmente separato dalla condotta (violenza, minaccia o abuso di autorità) ma da questa causato. Nel caso di specie, l'evento consiste in un comportamento umano.
Attraverso la collocazione dell’articolo nel Codice penale possiamo evincere che il bene giuridico tutelato dalla norma è la libertà personale e, più precisamente, la libertà sessuale. Trattasi dunque di un reato monoffensivo di danno, dal momento che il verificarsi dell'evento comporta l'offesa nella forma della lesione della libertà sessuale.
L’oggetto materiale del reato è la persona costretta, in quanto su di essa incide l'azione della costrizione da parte del soggetto attivo. Questo coincide con il soggetto passivo, titolare del bene giuridico che la norma incriminatrice tutela.
Si tratta, poi, di un reato di danno, poiché se guardiamo il bene giuridico tutelato, cioè la libertà sessuale della persona, questa viene automaticamente danneggiata al momento della commissione del reato.
Le circostanze aggravanti del reato di violenza sessuale sono contenute nell’art. 609-ter c.p. che, in presenza di determinati requisiti, comportano un inasprimento delle pene previste.
La giurisprudenza italiana contribuisce costantemente a definire i confini del reato di violenza sessuale e delle sue aggravanti, arricchendo l’interpretazione delle norme con numerosi principi di diritto. Ad esempio, è stato affermato che per configurare il reato di violenza sessuale non è necessaria una totale costrizione fisica della vittima; basta che vi sia un condizionamento significativo della sua volontà, anche indiretto, attraverso pressioni psicologiche o situazioni di dipendenza. Inoltre, negli anni si sono sviluppati molteplici orientamenti che hanno offerto una differente definizione di atto sessuale.
Secondo un orientamento (giurisprudenziale) , rientrano nel concetto di atti sessuali “tutti gli atti aventi significato erotico anche solo nella dimensione soggettiva dei rapporti soggetto attivo / soggetto passivo”. Non solo si è affermato che rientrano nello stesso concetto gli atti che coinvolgono la sfera genitale, ma anche tutti quelli che riguardano zone del corpo note, secondo la scienza medica, psicologica, antropologico-sociologica, come erogene. Ancora, rientra nella nozione di atto sessuale qualsiasi gesto che coinvolga pur fugacemente la corporeità sessuale della vittima, come palpeggiamenti, toccamenti e sfregamenti in parti intime. La giurisprudenza ha altresì ricondotto alla categoria degli atti sessuali anche il bacio sulla bocca o il palpeggiamento dei glutei.