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Come il patriarcato influisce sulle decisioni giudiziarie.

Martina Nicelli
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Patriarcato significa letteralmente “la regola del padre” e deriva dal greco πατριάρχης (patriarkhēs), “padre di una razza” o “capo di una razza, patriarca”, che è un composto di πατριά (patria), “stirpe, discendenza, etnia” (da pater πατήρ, “padre”) e ἄρχω (arkhō), “io regolo”. Patriarcato può significare tante cose: nel linguaggio antropologico, si riferisce a un sistema sociale nel quale il potere, l’autorità e i beni materiali sono concentrati nelle mani dell’uomo più anziano dei vari gruppi di discendenza, e la loro trasmissione avviene per via maschile, generalmente a vantaggio del primogenito maschio. Non è un caso che venga riconosciuto anche un significato cristiano al termine “patriarcato”: la chiesa, infatti, è una delle istituzioni -se non, l’istituzione- nella quale questo assume le sue forme più evidenti e rigide (basti ricordare il ruolo pressoché inesistente che viene riservato alle donne all’interno della stessa, che non potranno mai avere accesso ad alcun ruolo di spessore o decisorio). Nell’accezione cristiana, comunque, il termine “patriarcato” fa essenzialmente riferimento alla struttura delle diocesi, che riunite in un patriarcato, per l’appunto, rispondono al vescovo, che ha il titolo di patriarca. In sociologia, infine, viene definito “patriarcato” quel sistema sociale in cui gli uomini detengono principalmente il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e controllo della proprietà privata. Lo stesso fa anche riferimento al dominio della famiglia, dove il padre o la figura paterna esercita la propria autorità sulla donna e i figli. È di quest’ultimo aspetto che questo articolo tratterà, partendo da un’attenta e puntuale considerazione di tutte le possibili declinazioni e sfaccettature del termine, passando per le sue manifestazioni all’interno del diritto (specialmente penale) e terminando con la disamina di alcuni casi concreti.

Per poter dare un senso alla critica dei casi concreti che analizzerò, mi sembra opportuno iniziare da quella che ritengo essere la migliore inquadratura possibile del termine “patriarcato”. Per farlo, citerò spesso il libro “Manuale per ragazze rivoluzionarie” della scrittrice e femminista Giulia Blasi.
Il patriarcato è, essenzialmente, quella cosa della quale l’individuo medio non sospetta nemmeno l’esistenza. Per il patriarcato, come per la mafia, la non esistenza è cruciale, ed è per questo che, quando le femministe hanno cominciato a identificare il loro nemico nel patriarcato, quest’ultimo non è stato molto contento. Il patriarcato ovviamente non è un organo, il patriarcato siamo noi. Il patriarcato -cioè, noi- odia tutto quello che è diverso da un modello molto ristretto di essere umano, perchè tutto quello che è diverso è potenzialmente libero.
Si caratterizza per essere un sistema architettato nei minimi dettagli per stritolare i suoi elementi deboli, e assicurare il successo solo a quelli che per nascita o abilità riesco a giocare secondo le sue stesse regole.
Il patriarcato italiano -perchè è di questo che parliamo, del patriarcato che viviamo ogni giorno- è bianco, maschio e borghese. Come argutamente evidenziato dalla Blasi, ti racconta che puoi avere tutto quello che vuoi, se lo vuoi, ma allo stesso tempo ti dice anche quello che devi volere, a seconda che tu sia maschio, femmina, etero, gay, bianco o no.
Il patriarcato funziona perchè crea l’illusione dell’armonia: le donne sono fatte in un modo, gli uomini in un altro. Il patriarcato è la struttura sociale che si basa sul binarismo di genere, ossia la netta bipartizione fra le caratteristiche associate alle donne e quelle associate agli uomini, e sul ruolo associato a queste caratteristiche. La cultura patriarcale, perciò, ha sempre giustificato con l’inferiorità fisica e intellettuale delle donne la loro esclusione dalla vita sociale, politica, lavorativa, relegandole ai compiti di cura e assistenza dell’uomo e dei figli; al contempo ha effettivamente posto le donne in una condizione di inferiorità, ostacolando, fra le altre cose, la loro formazione intellettuale perché non si realizzassero come individui. Ma come si mantiene il binarismo di genere? Niente di troppo complicato: attraverso la costruzione di immagini stereotipate di caratteristiche e ruoli maschili e femminili. Queste vengono interiorizzate dalla società, la quale fa pressioni sugli individui perché si conformino a queste caratteristiche, pena l’esclusione sociale.

Il femminismo, di conseguenza, lotta per estirpare gli stereotipi di genere, che ingabbiano gli individui in due identità pre-impostate, privandoli della possibilità di scegliere cosa vogliono essere, di realizzarsi autonomamente e liberamente.
Perchè il patriarcato funzioni, le donne devono pensare che non esista altro sistema che non sia il patriarcato stesso. Devono essere convinte che ci sia un solo modo per essere femmine, un modo che passa innanzitutto per la conformità estetica: devono pensare che essere belle sia necessario, e che ciò sia un obiettivo indispensabile. Devono imparare a negarsi e a farsi inseguire, e a gareggiare tra loro. Questa macchina così complessa si regge interamente sulla collaborazione di tutti, uomini e donne; i primi sono quelli che ne traggono i maggiori vantaggi in termini di prestigio economico e sociale, mentre le seconde prima o poi imparano che se non puoi battere gli uomini, forse è meglio unirti a loro. Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood è un esempio perfetto di società patriarcale.
È essenzialmente questa la ragione per cui, di fronte alla sempre maggiore emancipazione femminile, l’identità maschile tradizionale entra in crisi, e molti uomini reagiscono aggressivamente, prendendosela con la violenza con quella che ritengono la causa, ovvero le donne. Da qui deriva l’incremento di stupri e femminicidi che la cronaca registra negli ultimi anni, e che approfondirò maggiormente nei prossimi paragrafi.
Per dovere di completezza, mi sento di aggiungere che il patriarcato assegna un ruolo anche agli uomini, che devono essere virili e non devono mai mostrare le loro fragilità. L’uomo che rifiuta questo ruolo viene visto come effeminato, e poiché per questa mentalità la donna è qualcosa di inferiore rispetto all’uomo, viene considerato “indegno” di essere uomo. Da qui deriva anche il disprezzo per gli omosessuali, e l’omofobia.
Inoltre, il patriarcato funziona negli ambienti cattolici – tutt’ora maggioritari in Italia -, strutturati secondo una gerarchia squisitamente patriarcale: ai vertici, infatti, troviamo solo uomini.
Il patriarcato è, quindi, una cultura intera.

La sopracitata Giulia Blasi è una femminista. Perchè citarla? Semplice, perchè in una discussione sul patriarcato, prima o poi il femminismo salterà fuori. C’è chi ritiene che il femminismo non sia più un’ideologia attuale, ma si sbaglia: il femminismo è più che mai un movimento che appartiene ai nostri giorni, e vi apparterrà sempre fino a che la cultura patriarcale sarà ancora viva, e continuerà a pervadere la società in ogni suo aspetto, impedendole di evolversi verso una maggiore equità.
A scanso di equivoci, mi preme sottolineare che il femminismo al quale faccio riferimento è, essenzialmente, un femminismo intersezionale. Infatti, ancora oggi c’è chi, alla domanda “cos’è il femminismo?”, risponderà che il femminismo non è altro che un gruppo di donne arrabbiate, e fortemente convinte della superiorità del genere femminile, nonché una categoria di persone che disprezza senza particolari ragioni il genere maschile. Questo non corrisponde alla realtà dei fatti: il femminismo è una battaglia di tutti, uomini e donne, verso una società più equa e inclusiva.

La storia della violenza contro le donne è strettamente legata all’idea arcaica della donna percepita come proprietà privata, come oggetto non autonomo, sottomessa a un uomo “proprietario”. Questa idea risale all’affermazione dell’istituzione patriarcale come sistema in cui le disuguaglianze di genere si perpetuano meccanicamente. Il patriarcato è, infatti, spesso definito come un sistema di dominio maschile, la cui radice è proprio la “proprietà” dell’uomo sulla donna, la sua pretesa di considerarla e il potere di farne una cosa “sua”. Su di essa si sono poi modellate tutte le altre forme di proprietà: sugli animali, sui campi, sui pascoli e le foreste, sugli schiavi, sui palazzi, sul denaro, sulla conoscenza. Sono tutte forme di accaparramento di ciò che è fecondo, proprio come le donne: il modello del patriarcato, infatti, è la fecondità della donna, la produzione della prole, da sempre considerate come una ricchezza inestimabile.
In occasione dell’ultima giornata contro la violenza sulle donne, l’Istat ha diffuso un report su come i ruoli di genere vengono percepiti dagli italiani, dai risultati decisamente sconcertanti e, soprattutto, grondanti di giudizi: quasi un cittadino su quattro (uomini, ma si intendono anche donne) pensa ancora che la causa della violenza sessuale sulle donne sia addebitabile al loro modo di vestire, mentre il 39,3% della popolazione italiana è convinto che sia possibile sottrarsi a un rapporto sessuale, se davvero non lo si vuole. E ancora, il 15% pensa che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. Dunque per una percentuale considerevole degli italiani, i comportamenti delle donne hanno ancora una consistente responsabilità nel “provocare” le reazioni violente degli uomini. Ma non è tutto: per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false, per il 7,2% di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì, e per il 6,2% le donne definite come “serie” non vengono violentate.

Il patriarcato c’entra molto con tutto questo: si identifica con chi sceglie quali vittime di stupro e molestie siano degne di essere ascoltate, stila classifiche di gravità dell’aggressione sessuale, e decide quali donne sostenere e quali no in base a quanto sembrano danneggiate dall’esperienza che hanno avuto. Il patriarcato ha sempre attaccato chi ha osato raccontare le violenze subite dagli uomini, potenti o no.
Parlare di violenza di genere in relazione alla diffusa violenza sulle donne significa, quindi, mettere in luce la dimensione “sessuata” del fenomeno, in quanto manifestazione di un rapporto tra uomini e donne storicamente diseguale, che ha condotto i primi a prevaricare e discriminare le seconde. Nell’introduzione della Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne del 1993, viene ricondotta la violenza sessuale a uno di quei meccanismi sociali decisivi che costringono le donne a una posizione subordinata. La violenza contro le donne viene descritta come  un qualsiasi atto di violenza, posto in essere per motivi di genere, che provochi o possa verosimilmente provocare danno fisico, sessuale o psicologico. Vengono fatte rientrare all’interno di questa classificazione anche le minacce di violenza, la coercizione e la privazione arbitraria della libertà personale. Purtroppo, il tema della violenza sulle donne è un tema sempre attuale: le ricerche compiute negli ultimi dieci anni dimostrano che la violenza contro le donne è endemica in tutti i Paesi del mondo. Le vittime e i loro aggressori appartengono a tutte le classi sociali o culturali, e a tutti i ceti economici.

Nel 1996 le “Norme contro la violenza sessuale” hanno tolto questo reato dalla sezione sui reati contro la morale, collocandolo tra i reati contro la persona.
Perchè parlare di violenza sessuale e di patriarcato, allora? Giunti a questo punto, sembra utile darsi finalmente una risposta.
Nelle norme contro la violenza sulle donne vi è un alto rischio di inadempimento, a causa della diffusione di una cultura maschilista e familista (quello che, fino ad ora, abbiamo definito patriarcato, per l’appunto), che non ritiene i maltrattamenti e le violenze sessuali perpetrati nei confronti delle donne dei fatti su cui si debba intervenire seriamente. Nel 2009, una ricerca specifica dell’università degli Studi di Milano (“Violenza maschile contro le donne e risposte delle istituzioni pubbliche”) ha messo in luce un bassissimo tasso di denuncia degli episodi di violenza: un primo indizio, questo, che suggerisce come la cultura maschilista agisca fortemente sui comportamenti individuali e collettivi. Il 96% delle violenze non emerge se l’autore non è il partner, mentre se l’autore è il partner, le istituzioni pubbliche verranno a conoscenza del 8,2% di esse. È evidente che ci sia un problema di interazione con le istituzioni pubbliche, evitate da un così gran numero di donne, ed è qui che entra in gioco la cultura patriarcale: le donne si aspettano un rifiuto di credere alla loro storia, sono quasi certe che ciò che gli è accaduto verrà banalizzato o colpevolizzato. Le radici culturali di tali atteggiamenti si trovano nella svalutazione sociale del sesso femminile, la cui voce non viene ascoltata, soprattutto quando è in contrasto con quella maschile.
Anche le denunce per violenza sessuale rischiano la stessa disattenzione e incredulità, riflettendo i rapporti di potere nella società attuale, in cui il sesso maschile è ancora dominante su quello femminile.
La costruzione dell’identità maschile tradizionale si basa sul dominio sulla “propria donna” (ricordiamolo: il patriarcato nasce con l’avvento della proprietà privata e con essa, di conseguenza, la proprietà sulla donna) e sulla superiorità sociale del sesso maschile, ed è una cultura ancora molto diffusa. Le indagini sulle violenze di genere offrono una base di realtà a quanto le femministe sostengono in ogni parte del mondo : il sistema nel quale viviamo si fonda su un’asimmetria di potere fra donne e uomini tale per cui il genere femminile è ritenuto, come efficacemente scriveva Simone de Beauvoir, il “secondo sesso”, e fatto oggetto di esclusioni, ingiustizie, soprusi e violenze.

Il patriarcato è una cultura, e in quanto tale, raggiunge ogni aspetto della nostra vita, sia sociale che privata. Negli ultimi anni, numerosi casi giudiziari hanno suscitato l’interesse di molte persone, vuoi per sostegno, vuoi per indignazione. Io mi trovo tra queste ultime.
La più (tristemente) celebre è la “sentenza dei jeans”. Correva l’anno 1999, e la Cassazione assolveva un istruttore di guida dall’accusa di stupro ai danni di un’allieva diciottenne perchè la ragazza indossava un paio di jeans, indumento che per i giudici risulta quasi impossibile sfilare dalle gambe di una persona senza la collaborazione della stessa. Si tratterebbe, infatti, di un’operazione difficoltosa anche per la persona stessa che li indossa; è un dato di comune esperienza, affermarono i giudici. La ragazza, quindi, venne considerata consenziente, e dunque non era stata stuprata. La decisione in questione scatenò l’ira dell’opinione pubblica, tanto che la stessa Corte parlò di “distorsione mediatica”. A detta della Cassazione, argomentazioni molto più solide spingevano a ritenere che la ragazza avesse mentito, e il riferimento all’abbigliamento della stessa fu inserito come ulteriore prova dell’innocenza dell’uomo. Ma se si trattava di un’evidenza non strettamente necessaria, perchè inserirla? Perchè mettere nero su bianco un ragionamento così lesivo della dignità delle donne e che, inoltre, avrebbe rischiato di diventare un pericoloso precedente giudiziale? Fortunatamente, la Cassazione ha poi “rimediato” alla questione dei jeans nel 2006, quando, con la sentenza n. 22049, ha condannato un altro violentatore, nonostante la stessa vittima avesse sfilato i propri jeans per la paura che le accadesse di peggio.

Quella dei jeans è solo la prima di una lunga e preoccupante serie di sentenze.
Nel 2006 nella sentenza n. 6329, viene riconosciuta l’attenuante della minore gravità del fatto allo stupro perpetrato da un patrigno nei confronti di una quattordicenne, perché quest’ultima non era più vergine al momento dell’aggressione. Per i giudici, la ragazzina sarebbe quindi effettivamente stata stuprata dal patrigno, ma senza aggravanti poiché «aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età» ed è quindi lecito ritenere «che già al momento dell’incontro con l’imputato la sua personalità, dal punto di vista sessuale, fosse molto più sviluppata di quella di una ragazza della sua età».
Nel 2007, a Montalto di Castro, un paese tra la Toscana e il Lazio, un gruppo di otto ragazzi stuprò per ore una ragazza di quindici anni. Il paese difese strenuamente i ragazzi, anche di fronte alle telecamere dei telegiornali, affermando a gran voce, come se fosse ovvio, che la ragazza portava la minigonna. «È stata una ragazzata, e se l’hanno fatto vuol dire che lei li incoraggiava». «Quella ragazza era una poco di buono, è stata lei ad attirare nella pineta i ragazzi che poi ha accusato dello stupro».
Nel 2012, sei anni e due processi dopo, nonostante la richiesta di quattro anni di carcere avanzata dal Pubblico Ministero, e pur riconoscendo che il racconto della ragazza era del tutto veritiero, il tribunale per i minori di Roma decise per la seconda volta di affidare i colpevoli ai servizi sociali, sospendendo così ancora una volta il processo. Nel 2009, un’altra sentenza molto discussa: in un caso di stupro di gruppo, nel quale la Corte d’Appello di Torino aveva precedentemente applicato anche l’aggravante dell’aver commesso il fatto con l’uso di sostanze alcoliche (art. 609 ter c.p.), la Cassazione dispose che ciò non si poteva sostenere, in quanto la vittima si era ubriacata assumendo volontariamente l’alcol. I giudici stabilirono, infatti, che se da un lato non si può sostenere che una donna ubriaca possa aver prestato un “consenso valido” ad un atto sessuale, ritenendo quindi i due uomini colpevoli dello stupro di gruppo, essi stabilirono anche che, per applicare l’aumento di pena, l’alcol debba essere imposto contro la volontà della persona offesa. La Cassazione riconobbe la violenza sessuale, e non stabilì che l’ubriachezza volontaria fosse stata un’attenuante, ma, bensì, che se una donna che ha bevuto viene stuprata, l’aggravante esiste solo se lo stupratore ha dato personalmente e intenzionalmente l’alcol alla vittima. La sentenza venne criticata da molti, in particolar modo per aver spostato così tanto l’attenzione sull’assunzione volontaria o meno dell’alcol, da far quasi passare la vittima come la responsabile della minore gravità di ciò che le è accaduto.
Con un salto di quasi dieci anni, arriviamo al 2017, quando il Tribunale di Torino assolse l’imputato perché la presunta vittima non si sarebbe opposta abbastanza allo stupro. «Il fatto non sussiste», si legge nelle motivazioni della sentenza a un dipendente Croce Rossa accusato di stupro sei anni prima da una collega, poiché la donna non aveva gridato, non aveva chiesto aiuto e non aveva «tradito quella emotività che pur doveva suscitare in lei la violazione della sua persona».
Nel 2019, sempre in un caso di stupro, gli imputati vengono assolti, perché per le giudici -sì, LE giudici- del Tribunale di Ancona la ragazza è «troppo mascolina» per essere desiderabile, e quindi lo stupro se lo è inventato. Nella sentenza vengono inseriti diversi commenti e valutazioni fisiche sulla sua scarsa avvenenza: la tesi, quindi, è che all’imputato la ragazza non poteva piacere, e, di conseguenza, la storia della violenza risulta poco credibile. In questo caso, il verdetto è stato poi successivamente annullato dalla Cassazione per incongruenze e vizi di legittimità.

Perché citare un libro femminista, una scrittrice femminista? Perché parlare di patriarcato?
Senza voler sembrare troppo ambiziosa -anche se ho imparato che in questo campo è meglio esserlo, è quasi doveroso-, quello che ho voluto provare a denunciare con questo breve scritto, è la necessità di costruire un’alternativa allo “stato di cose esistenti”.
Ritengo che un’analisi che indaghi, con sguardo di genere, i nessi esistenti fra violenza contro le donne, economia, società e democrazia, sia più che mai importante in questi giorni. Si avverte la necessità di costruire un progetto alternativo di società, e molto parte dal femminismo che ognuno di noi è in grado di praticare.
Ragionare e intervenire, avendo ben presente la struttura della società nella quale viviamo: questa sembra l’unica via percorribile. Per fare ciò, è indispensabile che ognuno di noi cominci ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno. È fondamentale educare a un’altra idea di società, fondata sull’uguaglianza dei diritti, ed è altresì fondamentale annullare l’intolleranza, il disprezzo e la violenza patriarcali, soprattutto nei confronti delle donne. Un’azione comune e femminista è più che mai necessaria: la società ha bisogno di un femminismo che sappia diventare causa comune per donne e uomini, stanchi di vivere in un mondo ingiusto, intollerante e violento.

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