White Collars
I profili del D.lgs. 231/2001

Venerdì 10 novembre, le associazioni “Keiron – La casa del penalista” e “Corporate Law Academy (CLA)” hanno organizzato il seminario “White Collars – I profili del D.lgs. 231/2001”, un incontro dedicato alla responsabilità amministrativa degli enti e ai profili più attuali del diritto penale d’impresa.
Questo evento ha offerto agli studenti l’occasione di riflettere su come il decreto 231, a più di vent’anni dalla sua introduzione, rappresenti non solo uno strumento sanzionatorio, ma anche una vera e propria architettura di governance e prevenzione del rischio penale d’impresa.
Con il coordinamento scientifico del Prof. Enrico Basile, l’incontro ha visto la partecipazione di tre ospiti di rilievo nel panorama del diritto penale societario:
• Avv. Ennio Alagia (Managing Associate, Chiomenti),
• Avv. Ludovica D’Alberti (Senior Associate, Clifford Chance),
• Avv. Francesco Sbisà (Partner, BonelliErede).
Ognuno ha offerto una prospettiva diversa sul tema, tracciando un quadro completo della responsabilità 231: dalle fondamenta dogmatiche alle indagini interne, fino alle misure di prevenzione e alle prospettive di riforma.
La ratio del D.lgs. 231/2001 – “Il rischio del bastone”
L’intervento iniziale è stato affidato all’ Avv. Ennio Alagia, che ha aperto la discussione percorrendo le origini e la logica del decreto.
Approvato nel 2001, il D.lgs. 231 ha segnato una svolta epocale nel nostro ordinamento: per la prima volta, le società – e non solo le persone fisiche – possono essere chiamate a rispondere penalmente per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio.
La ratio di questa innovazione è quella di trasformare il rischio della sanzione, il “bastone”, in uno strumento di responsabilizzazione per persone giuridiche, enti e associazioni, con l’unica eccezione dello Stato, degli enti pubblici territoriali e, più in generale, degli enti pubblici non economici. L’obiettivo è spingere tali soggetti a dotarsi di modelli organizzativi realmente idonei a prevenire la commissione di reati attraverso l’effettività delle procedure.
Il relatore ha quindi illustrato la struttura del decreto, soffermandosi sugli articoli 5, 6 e 7:
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l’art. 5 definisce i criteri di imputazione all’ente, distinguendo tra reati commessi da soggetti apicali e sottoposti;
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l’art. 6 introduce l’esimente organizzativa, cioè la possibilità per l’ente, nella sola fattispecie di reato commesso dai vertici e non anche dai sottoposti, di andare esente da responsabilità se dimostra di aver adottato e attuato un modello idoneo a prevenire i reati;
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l’art. 7 disciplina invece la “colpa di organizzazione”, che scatta quando mancano adeguati controlli interni.
In particolare, l’art. 6, nel caso considerato, riguarda figure apicali quali amministratori, direttori generali, dirigenti…; mentre l’art. 7 riguarda figure, quali dipendenti o collaboratori, sottoposti alla direzione e vigilanza esercitata dai soggetti sopra citati.
L’Avv. Alagia ha poi sottolineato come, nei casi in cui il reato sia commesso da un soggetto apicale (amministratore, dirigente etc.), si verifichi un vero e proprio ribaltamento dell’onere della prova: è la società stessa che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per prevenire il reato, provando l’effettività del modello 231, l’indipendenza dell’Organismo di Vigilanza (OdV) e la correttezza delle procedure interne.
Dopo aver delineato la logica generale del decreto, Alagia si è soffermato sul sistema sanzionatorio, articolato su quattro livelli: la sanzione pecuniaria, calcolata con un meccanismo bifasico a quote proporzionato alle dimensioni dell’ente ed alla gravità del fatto commesso ex. art. 133 c.p. La sanzione interdittiva, che può arrivare fino al divieto di esercitare l’attività o di contrattare con la Pubblica Amministrazione; la confisca, misura particolarmente temuta perché incide direttamente sul patrimonio e infine la pubblicazione della sentenza, che assume il valore di shame sentence e colpisce la reputazione dell’ente.
La compliance e il ruolo delle indagini interne nel modello 231
L’intervento dell’Avv. Ludovica D’Alberti ha spostato il focus sulla compliance e sulle indagini interne, strumenti sempre più centrali nella gestione aziendale moderna.
L’indagine interna, ha spiegato, rappresenta un cambio di paradigma: non è più solo un rimedio difensivo ex post, ma un meccanismo di prevenzione capace di anticipare e gestire i rischi legali e reputazionali.
L’avvocata ha quindi articolato il suo intervento intorno a tre domande fondamentali:
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Quando avviare un’indagine interna?
Non esiste un obbligo giuridico: la decisione spetta agli organi societari, come il Consiglio di Amministrazione o il CEO. Tuttavia, sempre più aziende scelgono di procedere per ragioni di trasparenza e credibilità.
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Chi deve condurla e con quali modalità?
Le indagini possono essere svolte internamente – da audit, compliance o risk management – oppure affidate a consulenti esterni, per garantirne l’indipendenza e la neutralità.
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Come gestire i risultati?
L’ente deve decidere se collaborare con l’autorità giudiziaria, adottare misure disciplinari o semplicemente archiviare l’indagine.
Il messaggio chiave? Una buona indagine interna deve essere esterna. Solo un approccio indipendente e documentato rende i risultati difendibili anche in sede giudiziaria.
Misure di prevenzione e il “filone milanese”
L’Avv. Francesco Sbisà ha infine approfondito il tema delle misure di prevenzione e della prassi seguita dalla Procura di Milano nel contrasto alla criminalità economica e al rischio d’impresa. Ha ricordato che, sebbene la responsabilità dell’ente sia formalmente “amministrativa”, nella sostanza presenta una natura penale, poiché incide direttamente sul patrimonio e sulla reputazione dell’impresa; in più questa è per legge rimessa al giudice penale.
Nel suo intervento ha spiegato come le misure cautelari interdittive possano tradursi nella sospensione dell’attività o nel divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione. Nel soffermarsi sulle misure cautelari, Sbisà ha evidenziato come, nella prassi, il sistema si muova spesso su un terreno incerto. L’ente può, in teoria, evitare l’applicazione della misura offrendo una cauzione e assumendo l’impegno di rivedere i propri modelli organizzativi.
Tuttavia, va evidenziato che il concetto di cauzione è alieno all’articolo 17 D.lgs. 231/2001 che disciplina invece le condotte riparatorie (risarcimento del danno, eliminazione delle conseguenze del reato…) e non prevede esplicitamente la prestazione di una cauzione quale alternativa. D’altra parte, si è osservato come la realtà dei procedimenti è ben più complessa: i tempi ristretti e le difficoltà difensive rendono questo meccanismo raramente efficace. Il vero problema, però, risiede nella natura cautelare del procedimento, dato che già in fase cautelare all’ente possono essere imposti i medesimi oneri previsti per la mancata adozione del M.O.G. o per il mancato risarcimento, o addirittura la sospensione del procedimento, pur prima dell’accertamento definitivo della responsabilità.
Richiamando l’articolo 17 del decreto, il relatore ha ricordato che la legge prevede la possibilità di escludere la sanzione qualora l’ente risarcisca il danno, restituisca il profitto e si doti di modelli idonei a prevenire nuovi illeciti. Tuttavia, anche in questo caso, ha sottolineato come la rigidità delle procedure finisca spesso per svuotare la norma della sua funzione premiale.
Ha poi richiamato alcuni casi recenti di criminalità organizzata e caporalato nel settore logistico, in cui la Procura ha esteso le misure di prevenzione previste dal Codice Antimafia, quindi aliene al D.lgs. 231/2001, anche a imprese formalmente lecite ma coinvolte, seppure indirettamente, in filiere considerate “a rischio”. Un approccio che, se da un lato rafforza la capacità repressiva del sistema, dall’altro solleva interrogativi sui limiti dell’intervento giudiziario e sulla libertà d’impresa.
Verso un modello premiale e cooperativo
In chiusura, il Prof. Enrico Basile ha sottolineato come la responsabilità 231 rappresenti oggi una frontiera avanzata del diritto penale d’impresa, in cui la compliance non è solo difesa, ma vera e propria architettura di governance.
Il futuro del sistema, ha concluso, dovrebbe muoversi verso un equilibrio tra deterrenza e cooperazione, introducendo anche in Italia strumenti di pre-trial agreement o incentivi per chi adotta modelli virtuosi di controllo interno. Tuttavia, ha osservato come l’eventuale introduzione di meccanismi di accordo preventivo comporterebbe anche alcuni rischi: l’esperienza statunitense dei Deferred Prosecutions Agreement (DPA) e Non Prosecutions Agreements (NPA) mostra come tali strumenti, pur efficaci nel favorire la collaborazione e la compliance aziendale, possono generare asimmetrie di potere tra accusa e difesa, una limitata trasparenza nelle negoziazioni ed una giustizia negoziata che rischia di ridurre le garanzie processuali.
Conclusione
Il seminario “White Collars” ha mostrato come il D.lgs. 231/2001 non sia solo un corpo normativo complesso, ma un mezzo per promuovere una cultura della responsabilità e della trasparenza aziendale.
Dalla lezione emerge una consapevolezza chiara: la compliance non è burocrazia, ma una forma evoluta di etica organizzativa.
E, come ha osservato uno dei relatori, la maturità di un sistema si misura nella capacità di dimostrare l’effettività delle proprie regole — non solo di enunciarle.
A cura di: Sara Conte e Francesco Leonardo Fago