Quando a compiere il reato è un minore
Irene Sciarma
Spaccio di stupefacenti, lesioni personali, furto e danni sono solo alcuni dei reati di cui negli ultimi tempi, e in misura sempre crescente, diventano autori anche soggetti minorenni.
Le statistiche vedono, infatti, un aumento della commissione di reati da parte di preadolescenti e adolescenti, i quali iniziano a delinquere anche fin dall’età di 13-14 anni.
A macchiarsi di reati fin dalla tenera età sono soprattutto cittadini italiani (anche se, talvolta, figli di genitori stranieri). I dati statistici del Ministero della Giustizia, aggiornati a settembre 2019, riportano che, dei quasi 19.000 minorenni in carico al Servizio sociale dei minori, circa 14.000 sono italiani, e solamente 4829 sono stranieri, per lo più provenienti dall’Africa (2.207), ma anche da Croazia, Romania, Albania, Ucraina, fino ad arrivare al Brasile.
Le situazioni che possono presentarsi concretamente all’analisi sono molteplici: può aversi il caso di un soggetto che commette un reato istantaneo prima dei 18 anni e che viene preso in carico ai Servizi della Giustizia minorile (USSM) ancora da minorenne; oppure, di un soggetto che inizia la condotta delittuosa da minorenne e prosegue nelle azioni criminali fino alla maggiore età, momento in cui viene preso in carico dai Servizi per adulti; oppure, infine, la situazione di un soggetto che, preso in carico dai Servizi della Giustizia minorile, alla maggiore età viene trasferito a quelli per adulti.
Sebbene la finalità educativa di un minore spetti in primis alle famiglie, anche l’ordinamento penale, nel momento in cui il soggetto commette un reato, è tenuto a provvedere in tal senso, secondo quanto sancito dall’art. 27 co. 3 Cost. (“Le pene […] devono tendere alla rieducazione del condannato”). È per questo motivo che il processo penale minorile segue una disciplina particolare, dettata dal D.P.R. 22 settembre 1988 n. 448, intitolato “Disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni“. Tali disposizioni sono finalizzate non tanto a creare un sistema processuale autonomo rispetto a quello applicato agli adulti, quanto a fornire all’autorità giudiziaria minorile uno strumento idoneo a perseguire la finalità educativa dei minori, in ragione della personalità, ancora in formazione, dell’adolescente e sulla base di alcuni principi fondamentali, tra cui il principio di adeguatezza, il principio di minima offensività, quello di destigmatizzazione e, infine, il principio di residualità della detenzione.
Il primo principio è ravvisabile all’art 1 del D.P.R, secondo cui il giudice, qualora reputi necessario applicare una misura cautelare, deve tenere conto, nella scelta, della situazione familiare, personale e educativa del minore, per poter scegliere il percorso educativo che maggiormente gli si addice.
Il principio di minima offensività, poi, è legato alla volontà del legislatore di evitare, o per lo meno contenere, le situazioni nelle quali i ragazzi potrebbero essere contaminati dalla cattiva influenza di soggetti adulti già presenti all’interno del sistema carcerario. Infatti, è convinzione del legislatore che i minori siano più influenzabili rispetto agli adulti, sia in positivo che in negativo: fornire loro esempi di lavoro, di legalità e di istruzione andrà a creare una maggiore possibilità che questi soggetti, crescendo, smettano di delinquere e cambino vita. È per questo motivo, ad esempio, che nella casa circondariale di San Vittore di Milano i giovani adulti ivi reclusi (18-24 anni), o perché arrestati immediatamente dopo il compimento dei diciotto anni o perché lì trasferiti dal carcere minorile una volta raggiunta la maggiore età, scontano la loro pena in luoghi ben separati rispetto a quelli che ospitano gli adulti, e lì imparano mestieri che permetteranno loro di mantenersi legalmente una volta usciti dal carcere.
Ancora, passando al principio di destigmatizzazione, questo si riferisce alla volontà di proteggere il più possibile l’identità individuale e sociale del minore da processi di auto ed etero svalutazione. Finalizzate ad esprimere questo principio sono numerose disposizioni, tra cui è possibile richiamare: l’obbligo di far pervenire le notifiche in maniera riservata, il divieto di diffondere immagini ritraenti il minore imputato o condannato o di fornire informazioni o altri elementi utili a ricostruire la sua identità. E, ancora in chiave di tutela del minore, si può ricordare lo svolgimento del processo a porte chiuse (senza, cioè, la presenza del pubblico).
Infine, il principio della residualità della detenzione comporta che la carcerazione venga ad essere considerata come l’extrema ratio e che, come tale, debba essere applicata solo in situazioni in cui altre misure risultino inidonee o inapplicabili a seguito della sopravvenienza di esigenze di difesa sociale altrimenti non tutelabili. Il legislatore prevede e predilige misure tese a responsabilizzare il minore, idonee a coniugare l’esigenza di punire il reato con quella di proteggere il suo percorso evolutivo di crescita.
Sulla base di questi principi, il D.P.R prevede regole specifiche per tutto il procedimento minorile, dalle indagini preliminari alle misure cautelari, dall’udienza preliminare fino alle misure di sicurezza, applicabili sia al minore non imputabile (perché non ancora quattordicenne o perché incapace di intendere e volere) sia a quello condannato. Le prescrizioni, la permanenza in casa, il collocamento in comunità e la custodia cautelare sono, ad esempio, le uniche misure cautelari applicabili al minore: solo questi strumenti, infatti, proporzionalmente all’entità del fatto e alla sanzione irrogabile, permettono sia il perseguimento delle esigenze cautelari, sia la continuazione dei processi educativi in atto. Per quanto riguarda, invece, le misure di sicurezza, quelle applicabili ai minori sono la libertà vigilata e il collocamento presso le comunità. Inoltre, in udienza preliminare si esclude la possibilità di esercitare l’azione civile e le spese sono a carico dello Stato.
Infine, la finalità educativa che ispira tutto il processo minorile impone al giudice di spiegare al minore il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza, di illustrare il contenuto e le ragioni, anche etico-giudiziali, della decisione, e costituisce il motivo per il quale la pena dell’ergastolo non può essere presente all’interno di un processo penale a carico di un imputato minorenne.