
Alle soglie dell’impossibile: il concetto giuridico di genocidio nel diritto penale internazionale
a cura di Maria d'Occhio

Tra le parole che il Novecento ha consegnato al diritto penale internazionale, nessuna ha avuto un peso simbolico e morale pari a quello del termine genocidio. L’espressione, potente ed evocativa, nasce dall’unione tra la parola greca ghénos (“stirpe”) e il verbo latino caedo (“uccidere”). Coniata nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, segnò una svolta decisiva: per la prima volta nella storia del diritto si disponeva di un termine capace di descrivere lo sterminio di interi gruppi nazionali, etnici, religiosi o culturali.
Lemkin avvertì l’esigenza di introdurre un concetto nuovo che designasse non solo l’Olocausto, ma ogni forma di violenza sistematica contro un gruppo di persone determinato. Come spiegò in un’intervista del 1949, l’idea nacque riflettendo sul genocidio armeno e sull’impunità dei responsabili: l’ordinamento internazionale non offriva alcuna tutela alle vittime né puniva adeguatamente i colpevoli.
A ottant’anni da Norimberga, il diritto penale internazionale continua tuttavia a misurarsi con il paradosso del genocidio: uno dei crimini più noti e universalmente condannati, ma al tempo stesso uno dei più difficili da accertare.
Dalla nascita del termine, solo in pochi casi le corti internazionali lo hanno utilizzato nella pronuncia di condanne definitive: tra questi, Prosecutor v. Jean-Paul Akayesu (ICTR, 1998), relativa al genocidio dei Tutsi in Ruanda, e Prosecutor v. Radislav Krstić (ICTY, 2001), il primo grado qualificò Srebrenica come genocidio; in appello (2004) la responsabilità di Krstić fu riqualificata in aiding and abetting genocidio. In tutti questi episodi, tuttavia, le pronunce riguardavano singoli individui o milizie, mentre a livello statale nessun Paese è mai stato formalmente condannato per genocidio.
Il termine non venne utilizzato nemmeno in relazione alla Germania nazista: a Norimberga, i capi del Terzo Reich furono condannati per crimini di guerra e per i neonati crimini contro l’umanità, ma la nozione di genocidio non era ancora stata introdotta nel diritto positivo.
Per colmare questa lacuna, nel 1948 le Nazioni Unite approvarono la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, il primo trattato internazionale volto a definire e regolamentare tale delitto.
L’articolo II stabilisce che il termine “genocidio” indica “gli atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”, realizzati mediante omicidi, violenze fisiche o misure volte a impedire le nascite o a trasferire forzatamente i bambini.
Questa definizione colloca il delitto tra i cosiddetti crimini internazionali fondamentali, insieme ai crimini di guerra – ossia le violazioni del diritto bellico commesse in tempo di conflitto – e ai crimini contro l’umanità, consistenti in persecuzioni e stermini di civili anche in tempo di pace.
A differenza dei reati sopracitati, la prova del genocidio richiede un elemento ulteriore: l’intento di distruggere un gruppo in quanto tale.
Questo dolus specialis è di difficile accertamento e si configura come la principale barriera applicativa in sede processuale, poiché richiede di dimostrare l’intento specifico di voler distruggere un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Tale intento è complesso da provare, poiché raramente esistono dichiarazioni esplicite e, in generale, risulta quasi impossibile dimostrare la volontà di un apparato complesso come quello statale.
Per questo motivo, i tribunali internazionali fondano la prova del genocidio su indizi, quali, ad esempio, la selezione delle vittime, la scala delle uccisioni, il linguaggio dei leader e la distruzione dei simboli culturali.
Questa impostazione, pensata per garantire rigore giuridico, rende però la soglia probatoria quasi inaccessibile. Nella pratica, quindi, molti massacri vengono qualificati come “crimini contro l’umanità”, mentre la condanna per genocidio resta eccezionale e spesso evitata per ragioni politiche.
Ne deriva un equilibrio precario tra giustizia ideale e realpolitik, in cui il genocidio sopravvive più come concetto morale che come norma effettiva. La Convenzione lo consacra come “reato dei reati”, ma al tempo stesso ne fa un concetto giuridico estremamente fragile.
È in questo contesto che gli Stati, tra cui l’Italia, hanno cercato di tradurre il principio universale in diritto interno, nel tentativo di colmare la distanza tra il riconoscimento giuridico e l’effettività della tutela.
L’Italia ha recepito la Convenzione delle Nazioni Unite con la legge 9 ottobre 1967, n. 962, introducendo nel proprio ordinamento il reato di genocidio. Agli articoli 1-5 sono puniti gli atti diretti alla distruzione, totale o parziale, di gruppi nazionali, etnici, razziali o religiosi: una trasposizione quasi letterale del testo internazionale, che riconosce al genocidio il rango di crimine contro la collettività umana.
Nonostante l’introduzione di questa normativa, nel nostro Paese non si sono registrate condanne definitive per genocidio. Le ragioni sono due: da un lato, la difficoltà di accertare l’“intento di distruggere” richiesto dalla norma; dall’altro, la complessità di coordinare la disciplina interna con il diritto penale internazionale.
La legge 16 giugno 2016, n. 115 ha modificato la legge n. 654 del 1975 (cosiddetta legge Mancino), estendendo le sanzioni anche alla propaganda o all’istigazione fondate sulla negazione o minimizzazione della Shoah, dei crimini di genocidio e dei crimini contro l’umanità. Essa, tuttavia, non ha introdotto nel Codice penale italiano i crimini di guerra o contro l’umanità, che restano tuttora disciplinati dal diritto internazionale.
L’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto di Roma della Corte penale internazionale è avvenuto principalmente con la legge 20 dicembre 2012, n. 237, che regola la cooperazione giudiziaria tra l’Italia e la CPI.
Nonostante ciò, l’Italia non ha ancora adottato un Codice dei crimini internazionali che recepisca integralmente nel diritto interno le fattispecie previste dallo Statuto di Roma. Questo lascia tuttora un vuoto normativo tra il riconoscimento formale dei principi di giustizia universale e la loro effettiva applicazione pratica.
Un passaggio cruciale si è avuto con la sentenza n. 238 del 2014 della Corte costituzionale, nota come caso dell’“immunità della Germania”. La vicenda trae origine dalle azioni civili promosse in Italia da alcuni cittadini – o dai loro eredi – vittime dei crimini di guerra commessi dalle forze tedesche durante la Seconda guerra mondiale, che chiedevano il risarcimento dei danni subiti.
La Corte internazionale di giustizia, nel 2012, aveva riconosciuto alla Germania l’immunità dalla giurisdizione civile italiana. La Corte costituzionale, invece, nel 2014 si è discostata da tale impostazione, affermando che l’immunità dello Stato straniero non può prevalere sui diritti inviolabili della persona e sul diritto di accesso alla giustizia.
Pur non riguardando direttamente il genocidio, la decisione segna un punto di svolta: riafferma la prevalenza della tutela dei diritti fondamentali rispetto al principio di sovranità, ponendo le basi per una forma di giustizia universale fondata sulla dignità umana. Allo stesso tempo, il caso evidenzia la tensione strutturale che attraversa il diritto penale internazionale: quando la responsabilità coinvolge uno Stato, e non solo individui, il diritto tende spesso a piegarsi alle logiche della diplomazia e delle relazioni di potere.
Il genocidio rappresenta la frontiera estrema del diritto penale internazionale, il punto in cui l’ambizione morale di proteggere l’umanità incontra i limiti della politica.
Lemkin immaginava una norma universale capace di prevenire e punire la distruzione di un gruppo umano; la realtà mostra, invece, uno scenario diverso, in cui la condanna dipende dal contesto geopolitico più che dal diritto.
L’ordinamento italiano, pur privo di casi concreti, costituisce un esempio paradigmatico di questa tensione: cerca di tradurre i principi universali in norme interne, ma resta vincolato alle logiche della sovranità e della prova penale.
Oggi il dibattito riemerge in modo drammatico di fronte ai conflitti contemporanei, come quello in Palestina, dove la Corte penale internazionale ha aperto una investigazione sui crimini commessi nei Territori occupati. Dopo la richiesta presentata dal Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) contro Israele, con l’accusa di violazione della Convenzione sul genocidio, il tema è tornato al centro dell’attenzione giuridica internazionale. Israele, da parte sua, nega l’esistenza di un intento genocidario, sostenendo che le operazioni militari a Gaza siano dirette esclusivamente contro Hamas e non contro il popolo palestinese nel suo complesso: una distinzione che evidenzia, ancora una volta, la difficoltà di accertare l’“intento di distruggere” richiesto dalla Convenzione del 1948.
In questo contesto si inserisce il pensiero di Philippe Sands, avvocato e professore di diritto internazionale presso l’University College London, noto per il saggio East West Street (2016), che ricostruisce la nascita del diritto penale internazionale. Secondo Sands, la soglia probatoria stabilita dalla giurisprudenza contemporanea è diventata talmente elevata da svuotare il concetto di genocidio del suo valore originario: se interpretato nel senso più stretto, rischia di non essere mai applicato; se ampliato, perde la sua forza giuridica e diventa un termine di denuncia morale.
In questo scenario, il genocidio continua a rappresentare il crimine più difficile da dimostrare, forse proprio perché è quello più difficile da accettare come possibile e, per questo stesso motivo, il più essenziale da continuare a nominare.