Quando l'interruzione delle cure non basta
Cristina Crosetto
Le questioni di fine vita sembrano destinate a tornare sotto i riflettori del pubblico dibattito in rare occasioni che, seppur circostanziate, richiamano l’attenzione del singolo in maniera inevitabile dal momento che commuovono, indignano e, soprattutto, dividono. In occasione del caso di Marco Cappato e Fabiano Antoniani (detto Dj Fabo) è salita sul palco anche la Corte Costituzionale che, con l’ordinanza n. 207 del 2018, fu chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del delitto di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.).
Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’Assise di Milano ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 nella parte in cui prescinde dal contributo delle condotte alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio, con riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, 117 Cost. in relazione agli artt. 2 e 8 della CEDU. Inoltre, la cornice edittale prevista, ad avviso dei giudici milanesi, sarebbe in contrasto con gli artt. 3, 13, 25, comma 2, 27 comma 3 Cost. La legge n. 219 del 2017 avrebbe riconosciuto un “diritto di ciascuno di autodeterminarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza”; tale riconoscimento avrebbe di conseguenza rimodellato il bene giuridico sottostante all’art. 580 c.p., rendendo “ingiustificata” – secondo l’ordinanza di rimessione – “la sanzione penale nel caso in cui le condotte di partecipazione al suicidio siano state di mera attuazione di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua scelta liberamente e consapevolmente”.
La Corte Costituzionale non poteva accogliere la lettura della legge 219/2017 proposta dai giudici milanesi. La legge del 2017 non riconosce “un diritto a ciascuno a determinarsi anche in ordine alla fine della propria esistenza” equiparando il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari necessari alla sopravvivenza al diritto al suicidio. L’ordinanza n. 207/2018 della Corte è consapevole che, con l’entrata in vigore della normativa citata, la legislazione italiana si allinea alle scelte dei principali ordinamenti degli Stati costituzionali di derivazione liberale che, da un lato, sanciscono il diritto al rifiuto/rinuncia a trattamenti sanitari anche salvavita e, dall’altro, vietano l’eutanasia e qualsiasi forma di aiuto al suicidio.
La differenza tra le due situazioni è chiara e costituisce un presupposto delle argomentazioni svolte dalla Corte nella sua ordinanza. Nel caso dell’eutanasia/aiuto al suicidio, il decesso non è determinato dalla malattia, ma dalla somministrazione di farmaci che provocano con il consenso del paziente la sua morte immediata; nel caso del rifiuto/rinuncia ai trattamenti sanitari, invece, l’esito letale è causato dalla malattia che fa il suo corso senza l’intervento di trattamenti sanitari, rifiutati dal paziente.
La Corte ritiene che l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio sia “funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”. Questo divieto cerca di tutelare principalmente le persone più fragili e facilmente condizionabili, che la Repubblica deve sostenere tramite politiche pubbliche volte a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.).
Tuttavia, la Corte considera opportuno prendere in considerazioni talune situazioni connotate da un elevato grado di specificità, modellate sulla vicenda esistenziale di Dj Fabo, e che erano inimmaginabili all’epoca dell’introduzione della norma incriminatrice. In particolare, si riferisce a “ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. In questi casi eccezionali, l’assistenza di terzi nel porre fine alla vita del paziente “può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’articolo 32, co. 2, Cost.”.
La Corte rileva che il divieto assoluto previsto dall’articolo 580 c.p. non permetterebbe di assicurare in ogni caso al malato, in seguito ad aver operato la scelta interruttiva, una morte rapida. Questo inevitabilmente potrebbe contrastare con la personale visione della dignità nel morire del malato, ed esporrebbe i cari a più sofferenze sul piano emotivo.
Paradigmatico in questione è appunto il già citato caso Cappato, in cui il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie.
La Corte non può però porre rimedio a questo vulnus cancellando semplicemente il reato di aiuto al suicidio prestato verso chi si trova in tale situazione: questa soluzione lascerebbe priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni. È quindi necessario l’intervento del legislatore per dar vita ad una regolazione della materia volta ad evitare ogni tipo di abuso nei confronti di queste persone vulnerabili. La Corte ritiene dunque “doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire […] al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa”. La Corte interviene quindi attraverso una modalità innovativa: decide di non decidere in merito all’articolo 580 c.p. e di rinviare la pronuncia di un anno, incitando il Parlamento ad assumere le decisioni necessarie e a definire alcuni requisiti procedurali affinché l’eccezione al divieto di aiuto al suicidio possa trovare realizzazione.
L'ambivalenza del suicidio
Nella rilettura dell’articolo 580 c.p. la Corte giunge alla conclusione che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può ritenersi in contrasto con la Costituzione. Secondo l’ordinanza, il divieto di aiuto al suicidio “assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”. La Corte reinterpreta quindi l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non in funzione della tutela del diritto alla vita come bene indisponibile, ma come volta a garantire che la condotta suicidaria non “sia assunta quale effetto di una volontà viziata e immatura, ovvero manifestata in circostanze che non consentono adeguate opportunità di ripensamento”.
Risulta quindi cruciale individuare i criteri in base ai quali considerare la scelta e la condotta suicidaria realmente autonoma e libera. A tal fine è necessario attingere anche ad altri campi disciplinari – quelli che più direttamente si occupano del suicidio, per poi formulare alcune considerazioni. Diverse discipline cercano di prevenire la condotta suicidaria, ma anche le analisi più raffinate non riescono a dare conto del coinvolgimento della psiche nella condotta suicidaria. Il suicidio nella maggioranza dei casi ricorre in situazioni umane comuni, e non negli psicotici ospedalizzati: ogni suicidio ha il suo particolare e individuale lato d’ombra. Ogni nostra conoscenza del suicidio sarà sempre incompleta, e una vera e propria comprensione del fenomeno globalmente inteso risulterà dunque impossibile.
Dunque nel momento in cui il suicidio, “uccisione di se stesso”, è un attacco alla vita del proprio corpo, l’unicità di questa tragica condotta è impossibile da sottoporre a verifica determinabile a priori. Neanche la psicoanalisi pensa di poter elaborare regole per stabilire quando il suicidio sia una decisione di un sé libero e autonomo. Questo potrebbe portare a credere che nessuno abbia la facoltà di autorizzare, proibire, facilitare la condotta suicidaria.
Queste osservazioni aiutano a convincersi in merito alla legittimità della prevenzione del suicidio. Ciò che dovrebbe condurre a condividere il pensiero della Corte in merito alla “perdurante attualità”dell’incriminazione dell’aiuto al suicidio è proprio l’impossibilità di individuare adeguati strumenti per verificare in concreto se la condotta suicidaria si fondi su una decisione libera e autonoma.
Dal momento che la scelta suicida è ambivalente, e che la conoscenza che ne abbiamo è limitata, ogni classificazione appare dunque parziale: “la psiche di ciascuno di noi può contenere un’eterna primavera in crescita e un inverno senza fine di depressione e di disperazione”.
Una scelta difficile
Il fulcro del discorso, ridotto ai suoi minimi termini, sta nel decidere se prendere commiato dal principio di indisponibilità della vita altrui.
Abbiamo visto che l’ordinanza della Corte è molto chiara in riferimento alla “richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto” effettuata da un malato che si trovi nella situazione descritta dai quattro punti richiamati sopra. Ma anche nel momento in cui una norma decidesse di recepire questa delimitazione, autorizzando in questo modo un ambito dell’aiuto al suicidio, sarebbe difficile credere alla tenuta di una tale delimitazione. Una volta operato questo passaggio i suoi effetti sarebbero difficilmente dominabili.
Ci si chiede dunque se risulti proporzionata la scelta di abbandonare il principio generale del divieto di agire per la morte di un altro individuo, essendo questo un principio in grado di evitare i rischi evidenziati dalla Corte solo nel momento in cui resta fermo nella sua integralità.
Tutti questi dubbi e questi rischi ci portano a comprendere la scelta della Corte Costituzionale di rinviare la sua decisione, richiedendo sul punto il coinvolgimento del potere legislativo.
CANESTRARI S., I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la richiesta di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, in Diritto Penale Contemporaneo
EUSEBI L., Regole di fine vita e poteri dello stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte Costituzionale, in Diritto Penale Contemporaneo
MASSARO A., Questioni di fine vita: i riflettori tornano ad accendersi con il “caso Cappato”, in Giurisprudenza penale