Il labile confine tra libertà di opinione e condotte discriminatorie: gli hate crimes
Amanda Cascone
I crimini d’odio, noti anche come hate crimes, sono determinati da pregiudizi per motivi razziali, etnici, religiosi, di genere, etc.: aggressioni di questo tipo non ricadono solo sulla vittima, ma colpiscono anche l’intero gruppo o comunità di cui questa fa parte. I recenti fatti di cronaca dimostrano poi come, talora, tali condotte discriminatorie abbiano un risvolto politico. L’articolo passa in rassegna le disposizioni penali che puniscono questa tipologia di crimini, evidenziando come il nostro ordinamento preveda vari strumenti di contrasto.
Una possibile definizione dei reati d’odio
Ogni giorno si sente parlare di episodi di apologia del nazismo e del fascismo, di attacchi antisemiti e di cori razziali, di femminicidi, di bullismo contro disabili, di discriminazioni contro le comunità LGBTQ+ e molto altro ancora: tutti questi crimini sono accumunati da un fattore ben noto, l’odio contro chi è diverso da noi, che sia per razza, religione, genere o orientamento sessuale. In questi casi si parla dei c.d. reati d’odio.
La definizione di questa tipologia di illeciti può essere mutuata da quella elaborata dall’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti Umani (ODIHR) dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) in base alla quale gli hate crimes o bias-motivated crimes sono quegli atti criminali determinati da pregiudizi che l’autore di tali condotte nutre contro un gruppo di persone accomunate da determinate caratteristiche.
Il crimine d’odio si caratterizza per la presenza di due elementi fondamentali: il primo consiste in un fatto previsto dalla legge come reato (il reato base), mentre il secondo consiste nella motivazione di un pregiudizio in ragione della quale l’aggressore sceglie la propria vittima.
Accanto alla nozione di hate crimes è stata sviluppata anche quella di hate speech (che potremmo tradurre con “discorso d’odio”), elaborata dalla giurisprudenza anglosassone, e che fa riferimento principalmente a parole o espressioni usate per lo più sui social networks, che hanno lo scopo di esprimere odio e di incitare alla violenza o alla discriminazione verso una persona o un gruppo di persone per motivi razziali, etnici, religiosi, di genere, di orientamento sessuale, o ancora per condizioni personali, sociali o legate ad eventuali disabilità.
Va sottolineato che i crimini d’odio, che sono reati comuni (cioè possono essere commessi da chiunque) e a dolo generico, sono caratterizzati dalla plurioffensività, ossia la loro capacità di ledere contemporaneamente una pluralità di beni giuridici. Quando viene commesso un reato di questo tipo, i primi effetti dell’azione illecita ricadono necessariamente nella sfera della vittima designata, a cui è diretta la condotta antigiuridica del reo; tuttavia, tenendo conto che la vittima è tale in quanto caratterizzata da un elemento che definisce l’identità comune di un gruppo di minoranza, le conseguenze dell’illecito si produrranno, sia pure indirettamente, senza ombra di dubbio, anche sulla comunità di cui la vittima fa parte. La Corte di Cassazione (si veda, in particolare, la sentenza n. 36906/2015) ha evidenziato tale aspetto “in quanto sono almeno due i beni-interessi protetti: l’ordine pubblico, inteso come diritto alla tranquillità sociale, ma soprattutto la dignità umana”.
È stato, inoltre, posto in evidenza come vi siano altri due elementi legati a questa categoria di crimini: il c.d. under-reporting e il rischio di escalation (vedasi V. Rizzi, Quando l’odio diventa reato).
L’under-reporting mira a descrivere il fenomeno per il quale chi subisce un crimine d’odio tende a non denunciarne gli autori, tendenzialmente per motivi psicologici.
Il rischio di escalation è, invece, causato dall’accettazione sociale della discriminazione, e dunque dall’accettazione dei reati d’odio a discapito di alcune minoranze: questo comporta e favorisce, come si evince già dal suo stesso nome, l’aumento di questi reati. Per quanto riguarda il rischio di escalation, va segnalato che si parte sempre con l’accettazione sociale di comportamenti discriminatori definiti “a bassa intensità”, in quanto non considerati offensivi e paragonati molto spesso a battute, da questi poi si passa successivamente alla commissione di veri e propri reati d’odio.
Questo concetto è stato ben rappresentato dalla cd. Pyramid of Hate dell’Anti-Defamation League (ADL): alla base della piramide sono collocati i comportamenti basati su pregiudizi (paura della differenza, linguaggio non inclusivo, ecc.), fino ad arrivare al vertice dove troviamo il reato di genocidio.
Possiamo allora dire che nell’ampia categoria degli hate crimes e hate speechs rientrano, a pieno titolo, tutti quei comportamenti violenti, minacciosi, o comunque poco rispettosi dell’altro – anche se solo verbali – finalizzati a creare un clima di ostilità e più in generale un ambiente poco favorevole alle minoranze, di qualsiasi tipo esse siano.
Gli interventi del legislatore nazionale.
Recenti episodi di cronaca hanno messo in evidenza gli stretti rapporti che spesso intercorrono tra i reati d’odio ed analoghi comportamenti finalizzati all’apologia del fascismo o nazismo, al punto da individuare in tali ultime condotte un costante atteggiamento discriminatorio se non di incitamento all’odio ed alla violenza verso taluni gruppi minoritari.
La normativa penale ha preso in considerazione queste condotte da diverso tempo e con vari interventi successivi.
Il primo fu rappresentato dalla legge n. 645/1952, meglio nota come “legge Scelba”, che, in diretta attuazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione (che vieta la ricostituzione del partito fascista), dettò, all’interno dell’articolo 1, una disciplina specifica che sanziona la ricostituzione del partito fascista sotto qualsiasi forma, nonché chiunque esalti pubblicamente esponenti, princìpi, fatti, metodi fascisti o, in generale, ponga in atto apologia o propaganda fascista (si veda in proposito l’articolo 4 che prevede che “chiunque, fuori del caso preveduto dall’art.1, pubblicamente esalta esponenti, principii, fatti o metodi del fascismo oppure le finalità antidemocratiche proprie del partito fascista”).
Vi fu poi la legge 13 ottobre 1975, n. 654 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966), che puniva espressamente chi propagandasse idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istigasse a commettere o commettesse atti di discriminazione o atti di violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, vietando al contempo ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per i medesimi motivi.
È stato successivamente emanato il decreto legge n.122/1993 (convertito in legge n. 205/93, c.d. legge Mancino), intervenuto sulla legge n. 654/1975 inasprendo le sanzioni e prevedendo nuove ipotesi di reato, come quello che punisce l’accesso ai luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche alle persone che vi si recano con emblemi o simboli che richiamano il partito fascista o le sue finalità antidemocratiche.
L’assetto normativo vigente
Le previsioni della legge del 1975 (come integrata dall’intervento normativo del 1993) sono state ora trasfuse negli articoli 604bis e 604ter del codice penale, introdotti a seguito del decreto legislativo n. 21/18 (Disposizioni di attuazione del principio di delega della riserva di codice nella materia penale a norma dell’articolo 1, comma 85, lettera q), della legge 23 giugno 2017, n. 103) e significativamente inserite nel capo intitolato “dei delitti contro l’uguaglianza”.
La prima disposizione normativa in questione punisce la propaganda e l’istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa. In particolare, viene punito (salvo che il fatto costituisca più grave reato) chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, nonché chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza, per gli stessi motivi menzionati sopra.
Viene ribadito il divieto di qualsiasi organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
È altresì sanzionata, con pena più grave (da due a sei anni di reclusione), la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, che si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale.
L’art. 604ter disciplina le circostanze aggravanti, stabilendo che per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo, commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità, la pena è aumentata fino alla metà.
Conclusioni
Volendo trarre una riflessione conclusiva, si può affermare che nel nostro ordinamento sono presenti varie disposizioni penali che puniscono i reati commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità. In tale gamma, rientrano anche i reati di apologia o propaganda del fascismo, tesi a diffondere una visione antidemocratica propria del fascismo e del nazismo (con correlate idee di discriminazione razziale ed etnica). Possiamo tranquillamente dire che si tratta di norme volte a tutelare l’impianto democratico dello Stato, nonché a garantire la libertà e la pari dignità sociale di ogni persona. Purtroppo, però, c’è chi ancora si ostina a ritenere che queste norme possano ledere la libertà di opinione e di pensiero di coloro che hanno idee di stampo fascista e razzista. Tesi totalmente infondata, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte europea dei Diritti dell’uomo (si veda per un’ampia disamina della giurisprudenza della Corte EDU O. Pollicino, La prospettiva costituzionale sulla libertà di espressione nell’era di Internet, in “Rivista di diritto dei media”, 2018, n. 1, p.34), che hanno costantemente ribadito l’importanza delle fondamenta democratiche su cui si basano gli Stati europei e del principio di democrazia tutelato all’articolo 1 della Costituzione italiana. Deve, perciò, ritenersi legittima e necessaria l’ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d’odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà (vedasi, tra le altre, Cass. n. 32862/2019).
La propaganda razzista e fascista non sono opinioni, sono reati: “We will have to repent in this generation not merely for the hateful words and actions of the bad people but for the appalling silence of the good people” (Martin Luther King Jr).