Ebru Timtik: dare la vita per i diritti umani
Irene Sciarma
La morte di Ebru Timtik
Il 27 agosto scorso, l’avvocatessa turca Ebru Timtik è morta di fame dopo 328 giorni passati ad assumere solo acqua zuccherata, tisane e vitamine, per aver intrapreso uno sciopero a seguito di una protesta che aveva deciso di portare avanti contro l’autorità giudiziaria turca. Alla sua morte, la donna pesava 30 kg.
Ebru Timtik stava combattendo per cercare di fa sì che, anche nel suo Paese, le regole dell’equo processo e, più in generale i diritti umani, venissero rispettati. L’avvocatessa si trovava in carcere dal 12 settembre 2018 in quanto imputata in un grosso processo che riguardava 16 avvocati, condannati in totale a 159 anni di carcere.
In particolare, nel marzo 2020 le era stata inflitta una condanna a 13 anni e 6 mesi di reclusione per presunti reati di terrorismo, per essere legata all’organizzazione marxista-leninista radicale Dhkp-C.
Così, a gennaio 2020 aveva iniziato, insieme al collega coimputato Aytaç Ünsal, lo sciopero della fame per protestare contro la mancata osservanza, nell’ambito del processo che la vedeva come protagonista, di tutte quelle garanzie che dovrebbero essere rispettate per tutelare i diritti umani, come previsto da tutte le Convenzioni in materia.
Ebru, infatti, riteneva che durante il suo processo non fosse stata rispettata la c.d. indipendenza della giurisdizione in quanto i giudici che l’avevano giudicata non erano indipendenti e tantomeno imparziali.
Lamentata violazione dell’art 6 CEDU
Ebru Timtik lamentava il fatto che la sua sentenza fosse stata pronunciata sulla base di prove costituite essenzialmente da dichiarazioni di testimoni rimasti anonimi, ossia dichiarazioni di soggetti di cui non si conosceva l’identità.
Pertanto, all’imputata non era stato garantito il contraddittorio, né era stato possibile porgere delle domande a chi l’accusava, nel tentativo di cogliere qualche debolezza per dimostrare ai giudici che quel testimone non diceva la verità. Insomma, la difesa non aveva potuto in alcun modo partecipare alla formazione della prova.
Quello che Ebru Timtik lamentava nel suo processo, era la violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, il quale, nei suoi tre paragrafi, si occupa di trattare le garanzie del c.d. equo processo, della ragionevole durata, della presunzione di innocenza e, infine, delle garanzie processuali dell’imputato in relazione al principio del contraddittorio.
Innanzitutto, il primo paragrafo dice che ogni persona ha diritto a vedere la propria causa esaminata in maniera equa, pubblica ed entro un termine ragionevole da un tribunale, costituito per legge, che sia indipendente ed imparziale sia in ambito civile che in ambito penale; si occupa, poi, di dettare le modalità con cui deve essere resa la sentenza.
Al secondo paragrafo, poi, è sancito il principio della presunzione di innocenza, almeno fino al momento in cui la colpevolezza non venga legalmente accertata.
Da ultimo, nel paragrafo 3 sono elencati i diritti dell’accusato, tra cui: il diritto ad essere informato in una lingua comprensibile dell’accusa rivoltagli e a farsi assistere da un interprete se non parla la lingua dell’udienza, il diritto ad avere del tempo per elaborare una difesa e, quindi, di difendersi o avere un difensore e, infine, il diritto di essere ascoltato (right to be heard) in contraddittorio, ossia il diritto dell’accusato di potersi confrontare in giudizio con il proprio accusatore per potergli fare delle domande e cercare di dimostrare la sua non credibilità – proprio il diritto che Ebru riteneva fosse stato violato nel suo processo.
La CEDU e la sua Corte
Sembra ora necessario fare un breve excursus sulla CEDU per permettere di avere un quadro completo della situazione.
La Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata firmata a Roma il 4 novembre 1950 dagli Stati da cui è composto il Consiglio d’Europa ed è stata poi ratificata dai singoli Stati negli anni successivi. Attualmente gli Stati firmatari sono 48.
Con il tempo, poi, al testo originario si sono affiancati dei protocolli, i quali sono andati ad integrare i principi ivi contenuti per renderli sempre più moderni e adattarli al contesto e al tempo. Ad oggi, i protocolli adottati da tutti gli Stati membri sono 15, mentre il protocollo n. 16 è attualmente in via di ratifica.
La Convenzione si occupa di garantire i diritti umani non solo nel processo penale, bensì in tutti gli ambiti in cui si estrinseca la vita degli individui, dall’equo processo, al divieto di trattamenti inumani e degradanti, alla proibizione della schiavitù, alla libertà di pensiero e di religione, fino al diritto di matrimonio.
Particolarità della Convenzione è che è, forse, l’unico atto sovranazionale che istituisce al suo interno un organo giudiziario preposto per la sua osservanza, ossia la Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo: poiché la CEDU stabilisce le garanzie minime di tutela dei diritti dell’uomo, la Corte è chiamata a giudicare se i singoli Stati membri si siano conformati quantomeno a questo livello minimo, o se siano al di sotto.
La corte di Strasburgo può essere adita da qualsiasi individuo che si sia ritenuto leso in un proprio diritto, nell’ambito di un processo nazionale che lo vede come imputato. Si parla, quindi, di ricorso individuale, il quale, a seconda della complessità della questione, verrà deciso da un singolo giudice, da un comitato di tre giudici oppure, per quanto riguarda le materie di libertà, sicurezza e giustizia, da una camera composta da sette giudici.
All’esito del processo, la sentenza che la Corte può emanare è solo di due tipi: di rigetto del ricorso proposto dal cittadino, ritenendo che non ci sia stata alcuna violazione, o di condanna verso lo Stato membro. In questo secondo caso, lo Stato membro sarà obbligato ad adottare misure individuali o generali di riparazione e conformarsi alla sentenza.
Applicazione della CEDU
A 70 anni dalla ratifica della Dichiarazione universale dei diritti umani e della Convenzione universale dei diritti umani, un’analisi della situazione globale portata avanti da Amnesty International, fa emergere come, ancora oggi, si possa notare una netta distinzione tra Paesi che ogni giorno si impegnano a difendere questi diritti, cercando di armonizzare i propri ordinamenti e adottare principi comuni conformi alle Convenzioni, e Paesi che, invece, violano ancora questi diritti, cercando di reprimere ogni tipo di protesta.
Il rapporto di Amnesty International sottolinea come anche Europa e Asia Centrale, nonostante generalmente siano in prima linea per il rispetto dei diritti umani, non sempre adottino comportamenti conformi alle Convenzioni, soprattutto quando si tratta di misure antiterrorismo e di criminalizzazione del lavoro degli attivisti.
In Oriente, invece, i governi appaiono ancora sordi alle richieste degli attivisti di rispettare i livelli minimi di tutela sanciti dalla Convezione. In Paesi come la Cina e l’Iran, per esempio, ci sono pesanti censure sulle comunicazioni e una grande repressione delle libertà fondamentali degli individui.
Guardando, nello specifico, alla situazione in Turchia, la vicenda di Ebru non è un caso isolato. Molti avvocati attivisti sono in carcere nelle medesime condizioni: dopo il colpo di Stato del luglio 2016 più di 1500 avvocati sono stati portati in tribunale, accusati degli stessi reati per cui venivano processati i loro clienti. Uno schema che molto si allontana dalle garanzie dell’equo processo che la CEDU sancisce.
Insomma, nonostante la Turchia sia membro della Nato e aspiri a diventare membro dell’Unione europea, dal 2014, sotto la presidenza di Erdogan, si è avviata a diventare un Paese a regime sempre più totalitario, non solo incarcerando avvocati che si battono per far valere i diritti umani, ma fino ad arrivare ad eliminare la separazione tra potere esecutivo e potere giudiziario, sottomettendo il Consiglio superiore della magistratura al potere esecutivo, in particolare all’Autorità del Guardasigilli.
In conclusione, quando, nel 2020, accadono vicende come quella che ha coinvolto Ebru ed i suoi colleghi turchi, ci si rende conto che siamo ancora molto lontani dal raggiungimento degli obiettivi di tutela minima delle garanzie dei diritti sanciti nella CEDU.
Il lavoro della Corte appare pertanto fondamentale ed occorre lottare per arrivare a quell’armonizzazione tra ordinamenti che le Convenzioni auspicano, per far sì che tutti gli uomini abbiamo pari dignità e che anche gli accusati in un processo vedano i propri diritti riconosciuti.