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Il sovraffollamento carcerario ai tempi del Covid-19

Lucrezia Marchionni
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Il 21 febbraio 2020 a Codogno, comune lombardo situato nel lodigiano, si è confermata la positività al virus Covid-19 del soggetto noto a tutti come Paziente 1, ossia il primo italiano ad aver contratto il virus. Da questo momento in poi, l’aumento dei casi è stato esponenziale e, soprattutto, non si è limitato ai nostri confini nazionali, diffondendosi in altri stati, europei e non, fino alla dichiarazione dello stato di pandemia da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità l’11 marzo 2020. 
Ad oggi l’emergenza non è ancora rientrata e si attendono ulteriori sviluppi della vicenda.

La diffusione del contagio da Covid-19 ha comportato notevoli stravolgimenti nella vita di tutta la popolazione in quanto, per fare in modo che la catena di contagi si possa interrompere, sono stati emanati numerosi decreti da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri. Questi decreti, adottando misure molto rigorose ma indispensabili per fronteggiare la situazione di urgenza in cui verte il Paese, hanno disposto l’isolamento sociale di milioni di persone.
I cittadini infatti sono chiamati a compiere un grande atto di responsabilità, stando in casa il maggior tempo possibile e limitando le uscite ai soli casi in cui risulta strettamente necessario. Tuttavia, la diffusione del virus nel nostro Paese non ha comportato soltanto il ribaltamento della quotidianità di milioni di italiani, ma ha anche innescato rivolte e proteste da parte di detenuti in più di venti carceri italiane.

Per poter comprendere al meglio il fenomeno che attualmente colpisce gli istituti penitenziari italiani, occorre partire dalle misure prese dall’attuale Governo per far fronte, anche all’interno delle carceri, all’emergenza sanitaria in atto.
Il provvedimento adottato dal ministro della giustizia Bonafede ha generato scompiglio tra i carcerati che si sono sentiti privati dei loro diritti dal momento che, per evitare contatti umani che avrebbero potuto comportare la diffusione del contagio all’interno del carcere, sono stati sospesi i permessi premio, i colloqui con i membri della famiglia e il regime di semilibertà.
Ciononostante, tale provvedimento non limitava la presenza di operatori e ufficiali di polizia penitenziaria che, entrando e uscendo quotidianamente dalle strutture penitenziarie, avrebbero a loro volta potuto rappresentare una fonte di contagio, soprattutto per il fatto che, al momento della decisione, questi ultimi non erano stati dotati di presidi sanitari idonei a prevenire la diffusione del virus (problema al quale si è posto rimedio in seguito).
Ad ogni modo, le udienze a distanza e la sospensione di permessi premio e di incontri con familiari non sono risultati sufficienti a fermare la diffusione del virus all’interno delle carceri tanto che, ad oggi, si segnalano all’incirca quindici casi di detenuti positivi sull’intero territorio nazionale, numero che potrebbe subire variazioni nei giorni a venire dati i rapidi sviluppi della pandemia.

È stata proprio la paura del contagio a comportare le rivolte alle quali abbiamo assistito; paura probabilmente alimentata da una comunicazione non idonea a informare correttamente la popolazione carceraria in merito al fenomeno in atto (che era stato percepito come incontenibile), unita alla rabbia generata dalle restrizioni applicate, che sono state avvertite dai carcerati come un’ulteriore limitazione dei loro diritti.
L’unione di questi due fattori ha dato origine a un’ondata di panico tale da provocare proteste, in alcuni casi anche molto violente.

Le rivolte hanno causato evasioni, come nel caso del carcere di Foggia, danni a svariate strutture e sono persino sfociate in eventi tragici, come la morte di diversi detenuti in più istituti penitenziari situati sul suolo nazionale.

Sebbene al momento dell’emanazione del provvedimento non fosse possibile prevedere che con una tale decisione si sarebbe dato luogo a fenomeni ritorsivi della portata di quelli osservatisi, nondimeno poteva chiaramente presumersi che privando i detenuti dell’unica via che hanno per mantenere contatti con il mondo esterno, in particolare, dell’incontro con i loro cari, si sarebbe potuto generare un malcontento generale, soprattutto dal momento che tali prescrizioni non erano idonee a escludere la possibilità di contagio per mezzo del contatto con gli operatori e gli ufficiali di polizia penitenziaria che, come detto, non erano dotati di strumentazione adeguata ad evitare la diffusione.

Tuttavia, il fenomeno accennato sopra non sembra essere attribuibile al solo coronavirus. Al contrario, le ragioni dietro tutti questi episodi sembrano essere diverse e riconducibili tanto alla nuova emergenza che sta vivendo l’Italia, quanto a vecchie problematiche che da anni affliggono le carceri italiane, prima fra tutte quella del sovraffollamento.
È stata proprio la questione del sovraffollamento a preoccupare il Governo relativamente ad un eventuale contagio all’interno delle carceri dal momento che queste, notoriamente, rappresentano luoghi ideali per l’incubazione e la diffusione di malattie infettive per il fatto che, come spiegano gli esperti, luoghi affollati, chiusi e soprattutto non dotati di condizioni igieniche ottimali favoriscono una rapida trasmissione del virus.
Quanto ciò detto verrebbe ulteriormente amplificato dalla situazione di sovraffollamento che da anni caratterizza le carceri italiane; si noti infatti come attualmente gli istituti penitenziari ospitino all’incirca 61 000 detenuti pur in presenza di regole sanitarie ordinarie che dispongono che tali spazi siano in realtà idonei a contenere un numero di carcerati che si aggira attorno ai 50 000.

È dunque chiaro come il suddetto problema sia piuttosto risalente e come ora più che mai risulti necessario un intervento volto ad alleggerire tale carico che, in questa fase di emergenza epidemiologica, rischia di trasformare le carceri italiane in bombe sul punto di esplodere.

La presente questione, infatti, già nel 2009 era stata oggetto di censura da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella sentenza Sulejmanovic v Italia, all’interno della quale la stessa aveva sottolineato, nel punire trattamenti inumani e degradanti, che il sovraffollamento dell’ambiente di vita del detenuto può comportare sofferenze inaccettabili.Negli anni si è dunque tentato di porre rimedio a questa situazione che grava sul nostro sistema carcerario; nel 2010 si è infatti iniziato a parlare di leggi “svuotacarceri” con lo scopo di introdurre nel nostro ordinamento la possibilità di eseguire la pena detentiva nel domicilio, andando così ad alleggerire la densità della popolazione carceraria, favorendo in questo modo un allineamento tra le condizioni di vita del detenuto e il divieto di trattamenti inumani e degradanti, così come enucleato dall’articolo 3 della CEDU.
Negli anni si è dunque tentato di porre rimedio a questa situazione che grava sul nostro sistema carcerario; nel 2010 si è infatti iniziato a parlare di leggi “svuotacarceri” con lo scopo di introdurre nel nostro ordinamento la possibilità di eseguire la pena detentiva nel domicilio, andando così ad alleggerire la densità della popolazione carceraria, favorendo in questo modo un allineamento tra le condizioni di vita del detenuto e il divieto di trattamenti inumani e degradanti, così come enucleato dall’articolo 3 della CEDU.
La situazione ad ogni modo non è mutata fino al 2013, anno in cui viene emanata la celeberrima sentenza Torreggiani v Italia nella quale la Corte di Strasburgo accerta la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, ingiungendo allo stato italiano di porre adeguato rimedio ai casi di sovraffollamento carcerario.
Nel 2017 si è visto un ulteriore tentativo di rimediare a tale problema con la riforma penitenziaria promossa dalla legge Orlando che, affondando le proprie radici nella giurisprudenza della Corte EDU e, in particolare, nella sentenza Torreggiani v Italia sopra richiamata, ha tentato di incidere sul sovraffollamento delle celle riducendo il ricorso al carcere per mezzo dell’impiego di soluzioni alternative. In ultimo, proprio per far fronte all’emergenza da coronavirus, il 17 marzo 2020 è stato emanato il decreto Cura Italia che, con riferimento alla situazione nelle carceri, ha lo scopo di far sì che i detenuti chiamati a scontare una pena o un residuo di pena pari o inferiore a 18 mesi (salvo alcuni soggetti) possano ricorrere alla detenzione domiciliare per mezzo di una procedura semplificata. Tuttavia, le misure volte alla riduzione del sovraffollamento contenute nel decreto non sembrano aver convinto il Consiglio Superiore della Magistratura che, in data 26 marzo 2020, ha emanato, con delibera approvata a maggioranza, un parere all’interno del quale si afferma che condizionare la detenzione domiciliare all’uso di braccialetti elettronici, che risultano di fatto indisponibili, renderebbe tali misure totalmente inadeguate.

In conclusione, è chiaro che si tratti di un problema fortemente radicato nel nostro sistema carcerario, che appare ormai al collasso. Tuttavia, nell’attesa di ulteriori sviluppi relativi al decorso della pandemia, ci auguriamo che vengano prese delle scelte legislative idonee a porre rimedio definitivo al problema e non solo delle misure temporanee che possano alleviare un male pronto a ripresentarsi al termine dell’emergenza sanitaria.

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