
Ergastolo ostativo: una pena senza uscita?
a cura di Noemi Gallo

L’ergastolo ostativo impedisce l’accesso ai benefici penitenziari per i condannati a reati di particolare gravità che non collaborano con la giustizia. Tale disciplina solleva tutt’oggi questioni di legittimità costituzionale a livello nazionale ed europeo, poiché rischia di tradursi in una pena perpetua priva di prospettive rieducative e reintegrative.
L’ergastolo ostativo è disciplinato dall’art. 4-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (n. 354/1975) e prevede un trattamento sanzionatorio particolarmente rigido per i condannati per determinati reati molto gravi. In particolare, la norma stabilisce che chi è condannato per questi delitti non possa accedere ai benefici penitenziari – come permessi premio, misure alternative alla detenzione o liberazione condizionale – in caso di mancata collaborazione con la giustizia.
La ratio della disposizione è chiara: evitare che soggetti ancora legati ad ambienti criminali possano godere di spazi di libertà, con il rischio di riprendere contatti pericolosi o compromettere la sicurezza pubblica.
Il termine “ostativo” serve a distinguerlo dall’ergastolo comune, per il quale invece resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo.
La norma individua un catalogo di delitti per i quali è prevista l’applicazione della presente disciplina. Tra questi rientrano i reati di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), terrorismo ed eversione dell’ordine democratico, sequestro di persona a scopo di estorsione, tratta di esseri umani, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, pornografia minorile e violenza sessuale di gruppo.
Si tratta quindi non solo di reati “tipicamente mafiosi”, ma anche di altre fattispecie considerate di allarme sociale elevatissimo, per cui il legislatore ha ritenuto necessario introdurre un regime più restrittivo.
La Costituzione italiana, all’art. 27, afferma con chiarezza che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Ma se il detenuto, pur non collaborando, si dimostra non più pericoloso o sinceramente ravveduto, è davvero conforme ai principi costituzionali escluderlo automaticamente da ogni beneficio?
La Corte costituzionale si è trovata più volte a dover affrontare questa questione.
Una decisione importante è la sentenza n. 253 del 2019, in cui la Consulta ha sollevato dubbi di legittimità circa il divieto di accordare permessi premio, sottolineando la necessità che il giudice debba in concreto valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento.
Successivamente, con l’ordinanza n. 97 del 2021 la Corte ha censurato la presente disciplina affermandone l’incompatibilità con la Carta fondamentale “nella parte in cui individua nella collaborazione con la giustizia l’unica via possibile per ottenere i benefici penitenziari” e ha concesso un anno al Parlamento per riscrivere la norma.
Parallelamente, anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) si è espressa in senso critico. Nel caso Viola c. Italia (2019), la Corte di Strasburgo ha stabilito che l’ergastolo ostativo, così come previsto dall’ordinamento italiano, viola l’art. 3 della Convenzione, che proibisce trattamenti inumani o degradanti.
Secondo la CEDU il difetto di collaborazione non può essere sempre collegato ad una scelta volontaria e consapevole del soggetto e, inoltre, non sempre la collaborazione riflette un cambiamento genuino o un’effettiva dissociazione dall’ambiente criminale.
Nel 2022 è stata approvata una riforma (decreto-legge n. 162/2022) in risposta al monito della Consulta.
Ad oggi i detenuti per i c.d. reati “ostativi”, scontato un periodo minimo fissato dalla legge, possono avanzare richiesta di accesso ai benefici penitenziari allegando elementi specifici che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso.
Dal punto di vista dell’accertamento affidato al giudice, è previsto che vengano attentamente valutati alcuni aspetti fondamentali: la correttezza della condotta tenuta dal detenuto durante il periodo di detenzione, il grado di partecipazione al percorso rieducativo intrapreso, l’eventuale dichiarazione di presa di distanza dall’organizzazione criminale di appartenenza, nonché le iniziative concretamente assunte nei confronti delle vittime, sia sotto forma di risarcimento sia attraverso strumenti di giustizia riparativa.
Per quanto riguarda la liberazione condizionale, i condannati all’ergastolo per reati ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia potranno farne richiesta solo dopo aver scontato 30 anni di pena effettiva. Per i condannati per reati non ostativi, o per coloro che abbiano invece collaborato, il limite resta invece fissato a 26 anni. Inoltre, mentre per questi ultimi l’estinzione definitiva della pena e la revoca delle misure di sicurezza personali intervengono trascorsi 5 anni dalla liberazione condizionale, per gli ergastolani ostativi non collaboranti il termine è raddoppiato e sale a 10 anni.
Tuttavia, la riforma non sembrerebbe aver introdotto reali aperture nei confronti dei detenuti sottoposti a questo regime.
Al contrario, invece di accogliere le indicazioni della Corte costituzionale volte a rendere la pena dell’ergastolo effettivamente riducibile, la riforma propone un impianto normativo che rende estremamente complesso per gli ergastolani e per i condannati per i reati “ostativi” ottenere l’accesso a benefici penitenziari al di fuori del carcere.
In conclusione, si riportano alcuni dati – i più recenti risalenti al 2021 - raccolti dall’associazione Antigone circa i detenuti sottoposti a questo regime.
Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua, parliamo quindi di oltre 1.250 detenuti. Da questi dati possiamo dunque comprendere che questo regime non è una pena in disuso né di marginale applicazione.