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Il Ne bis in idem a proposito di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta distrattiva. Cenni su: bancarotta, reato d’evento o di mera condotta?

Claudia Esposito (CLMG – Keiron)
e Simone Vescio (Università “La Sapienza” – Roma)

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Questo articolo rappresenta la prima parte di trattazione in merito al tema del ne bis in idem a proposito di appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta distrattiva. Una seconda e più approfondita analisi seguirà sulle pagine della rivista Sapienza Legal Papers della Università “La Sapienza” di Roma, nella quale verrà analizzata l’evoluzione giurisprudenziale in tema di qualificazione giuridica del reato come reato di pericolo o di danno.

Il tema in esame prende le mosse da una pronuncia della Corte di Cassazione del 2018, la quale annulla senza rinvio la sentenza di condanna dell’imputato per violazione del ne bis in idem in un caso di bancarotta per distrazione. La Suprema Corte richiama una pronuncia della Corte Costituzionale, la quale ritorna su questo principio tenendo conto degli indirizzi interpretativi della Corte EDU in merito all’art. 4 prot. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che sancisce il divieto di perseguire o condannare qualcuno per un’infrazione per cui è già stato scagionato o condannato a seguito di una sentenza.

Il fatto

All’imputato, amministratore di fatto di una società sportiva, è contestato il reato di appropriazione indebita, in quanto il soggetto avrebbe sottratto delle somme alla società (art. 646 c.p.). Il tribunale di Pordenone, con sentenza passata in giudicato, assolve l’imputato “perché il fatto non sussiste“. In seguito al successivo fallimento della società, nei confronti dell’amministratore viene nuovamente esercitata l’azione penale, in merito alla medesima condotta, per bancarotta fraudolenta distrattiva (art 216, comma 1 l.fall.). Il Tribunale e la Corte d’Appello di Trieste condannano l’imputato, che propone ricorso in Cassazione e con il secondo motivo del ricorso lamenta la violazione dell’art 649 c.p.p. (ne bis in idem), consistente nell’aver subito un nuovo giudizio riguardo una condotta per la quale era stato già giudicato e assolto con formula piena.

I principi richiamati dalla Suprema Corte: la sentenza 200/2016 della Corte Costituzionale

Il tema del ne bis in idem è venuto in evidenza nel cd. caso “Eternit – bis” nell’ambito del quale il giudice a quo aveva sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p. nella parte in cui tale disposizione «limita l’applicazione del principio del ne bis in idem all’esistenza del medesimo “fatto giuridico”, invece che all’esistenza del medesimo “fatto storico” . LaCorte Costituzionale nella sua trattazione chiarisce il significato dell’espressione “medesimo fatto”, contenuta nel testo del 649 c.p.p., prendendo in considerazione le posizioni assunte in merito dal “diritto vivente” italiano e dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Più nel dettaglio, il primo interpreterebbe il “medesimo fatto” nel senso di “medesimo fatto giuridico” (idem legale), la seconda invece gli attribuirebbe un’accezione di “fatto storico”, richiamandosi alla dimensione naturalistica e materiale della fattispecie concreta, prescindendo dalla qualificazione giuridica datane dall’ordinamento (il cd. idem factum).

La posizione della Corte Edu emerge nella sentenza Zolotukhin c. Russia, nella quale i giudici sottolineano come la qualificazione di un fatto inteso secondo l’idem legale e quindi tenendo conto della sola qualificazione giuridica che ne viene data, non sarebbe d’aiuto in quanto le corti sovranazionali non hanno sicuramente di fronte legislazioni nazionali armonizzate. A fortiori, si indica come unico criterio rilevante, al fine di accertare che i due fatti siano uguali e quindi non doppiamente perseguibili, quello dell’identità dei fatti materiali, cioè gli stessi fatti e le stesse circostanze di tempo.

La Corte Costituzionale si trova già concorde con la giurisprudenza sovranazionale sull’adozione del criterio dell’idem factum rispetto a quello dell’idem legale, tuttavia ritiene che nell’accertamento dell’identità dei fatti, questi vadano considerati non solo in base all’elemento della condotta ma secondo la triade “condotta – nesso causale – evento”. Ed evidenzia che questa ulteriore considerazione è già assodata nella giurisprudenza di legittimità.

Tuttavia, la Corte Costituzionale rileva comunque un contrasto tra art. 4 prot. 7 CEDU e quella regola della giurisprudenza di legittimità secondo la quale il principio del ne bis in idem non operi nel caso in cui il reato già giudicato sia stato commesso in concorso formale con quello oggetto della nuova iniziativa del pubblico ministero, nonostante il fatto sia il medesimo, ad eccezione dell’ipotesi in cui il primo processo si sia concluso con una pronuncia definitiva perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non ha commesso il fatto. Per questo motivo nel dispositivo dichiarerà costituzionalmente illegittimo l’art 469 c.p.p. nella parte in cui fa ancora vivere questa regola.

Il significato del ne bis in idem,così come enucleato dalla Corte di Strasburgo e ormai accolto anche nel nostro ordinamento con le precisazioni di cui sopra, ha poi il pregio di garantire il rispetto di tutta una serie di principi costituzionalmente garantiti. In particolare, l’articolo 111 della Costituzione, in quanto si eviterebbe che una persona possa conservare la posizione di imputato per lo stesso fatto, oltre il tempo ragionevolmente necessario a definire il processo.

Ancora, gli articoli 25 e 27 della Costituzione, i quali garantiscono l’interesse dell’imputato a non essere punito due volte e a non subire un nuovo processo per un fatto per il quale è già stato giudicato.

La decisione della Corte di Cassazione nella sentenza 25651/2018

La Corte di Cassazione richiama inizialmente due differenti soluzioni giurisprudenziali. La prima si rifà alla considerazione secondo la quale – al pari del concorso formale di reati (art. 81 c.p.) – l’unicità di un determinato fatto storico non preclude che allo stesso possano far seguito una pluralità di eventi giuridici. Pertanto, un giudizio già concluso per il reato di appropriazione indebita, non costituirebbe un ostacolo per l’accertamento e la punibilità di un altro reato, quale quello di bancarotta. La seconda, invece, afferma che tra appropriazione indebita e bancarotta fraudolenta per distrazione intercorra un rapporto di genere contenuto/contenitore. Più nel dettaglio, sostiene che la bancarotta rappresenti una figura di reato complesso, “sicché solo l’avvio del procedimento per bancarotta esclude la possibilità di un secondo giudizio per l’appropriazione, e non viceversa“.

La sentenza della S.C. in esame ritiene di dover risolvere oggi la questione alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza di cui sopra.

Rispetto alla prima impostazione giurisprudenziale richiamata

Come si è avuto modo di specificare prima, la Corte Costituzionale ha chiarito che in tema di ne bis in idem è da prendere in considerazione il fatto inteso come “fatto storico – naturalistico” precisando di dover fare riferimento non solo all’azione-omissione, ma anche all’evento (in senso esclusivamente naturalistico), al nesso causale, all’oggetto del reato nonché alle circostanze di tempo, luogo e persona.

Ne discende allora che: affinché si possa instaurare un nuovo giudizio, è necessario che il fatto così inteso sia diverso rispetto a quello preso in considerazione nel primo giudizio, a nulla rilevando che sussiste un concorso formale tra i due reati, dal momento che la corte ha dichiarato illegittimo l’art 649 c.p.p “nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che ricorre un concorso formale di reati tra res iudicata e res iudicanda“.

 

 

Rispetto alla seconda

La S.C. riconosce invero che il reato di appropriazione indebita e bancarotta siano strutturalmente diversi, in quanto il primo ha in più l’elemento specializzante della dichiarazione di fallimento: in altre parole, il fatto di “appropriarsi e basta” è diverso da “appropriarsi a danno dei creditori in una dimensione imprenditoriale”.

Ma la dichiarazione di fallimento è “indipendente dalla volontà dell’agente” e quindi “non può essere annoverato tra gli elementi che concorrono alla identificazione del fatto“.

Un indirizzo prevalente della Corte di Cassazione, ritiene infatti che il fallimento nel delitto di bancarotta fraudolenta è una condizione obbiettiva di punibilità (ex art 44 c.p.) e non già l’evento del reato. Pertanto il fallimento non è un dato che può differenziare sul piano materiale la bancarotta distrattiva rispetto all’appropriazione indebita. Non c’è quel “fatto diverso” che consenta di avviare il secondo giudizio.

È da segnalare che all’imputato è stato addebitato il reato di cui all’art. 216 l.fall (Bancarotta Fraudolenta) e non già l’art 223 2°comma, che dispone “… hanno cagionato con dolo […] il fallimento della società”. In quest’ultima ipotesi infatti la condotta dell’agente è causalmente legata al fallimento della società, il quale prende allora la veste di evento del reato e avrebbe potuto fondare quella diversità di fatti tra appropriazione indebita e bancarotta (rectius: “Fatti di bancarotta fraudolenta”).

Il secondo motivo di censura

La S.C. si muove però anche su un’altra direttrice che porterebbe comunque a censurare l’avvio del secondo giudizio, se anche i due reati fossero diversi. Infatti, quella regola secondo cui la preclusione ex 649 c.p.p. non operi qualora il reato già giudicato concorra formalmente con il reato da giudicare (con i limiti introdotti dalla Corte Costituzionale sopra richiamati), fa salva l’ipotesi in cui il primo giudizio statuisca che l’imputato non ha commesso il fatto o che il fatto non sussiste e quest’ultima ipotesi è propria del caso che stiamo esaminando.

In sintesi: è illogico avviare un secondo giudizio per bancarotta quando il primo giudizio, rispetto alla condotta distrattiva, ha stabilito che questa fosse insussistente. L’appropriazione, che è condotta di entrambi i reati, se non sussiste per l’appropriazione indebita non può sussistere nemmeno per la Bancarotta, salvo ammettere un paradossale contrasto tra giudicati.

Infatti, rimane da chiedersi: come avrebbe statuito la Cassazione se nel primo giudizio per appropriazione indebita l’imputato fosse stato ritenuto colpevole (e il fatto sussistente)?
E ancora, rispetto al primo motivo di censura, se il reato di bancarotta fosse considerato reato d’evento?

Reato d’evento o di mera condotta?

Si segnala brevemente che esiste un dibattito in corso sia in dottrina che in giurisprudenza rispetto alla qualificazione del reato di bancarotta come reato d’evento o di mera condotta. Come abbiamo visto l’indirizzo giurisprudenziale prevalente ritiene che l’elemento del fallimento sia una condizione obiettiva di punibilità (ex 44 c.p.). È vero infatti che il fallimento (rectius: la sentenza di fallimento) deriva da un giudice e non può essere conseguenza diretta della volontà e dell’azione dell’agente. Inoltre, esso rappresenta un plusvalore (la possibilità dei creditori di aggredire il patrimonio per rifarsi dei loro crediti), mentre l’evento è ontologicamente elemento di disvalore del reato.

Tuttavia, un evento c’è, ma non si vede (nella norma). L’imprenditore, attraverso le condotte di cui all’art. 216 l.fall provoca, ancor prima del fallimento, lo stato d’insolvenza dell’impresa ed è già in questo momento che la garanzia creditoria è inficiata e danneggiata. Infatti “l’evento del reato sta dunque nell’effetto pregiudiziale sui creditori che si concretizza con l’insolvenza, il dissesto o con il loro aggravamento”. Lo stato d’insolvenza, come evento del reato, impone allora l’accertamento di un nesso causale tra la condotta dell’agente e l’evento dannoso e nel caso di specie, consentirebbe di selezionare sul piano della rilevanza penale soltanto quelle condotte che sono causalmente legate, sia sul piano oggettivo che soggettivo, allo stato d’insolvenza o al dissesto che ha poi provocato il fallimento.

Il portato di questa considerazione dottrinale è di evitare un regresso all’infinito nella ricerca delle azioni od omissioni conformi al tipo, finanche a considerare quelle che seppur diminuenti del patrimonio dell’imprenditore sono state poste in essere in periodi di piena salute dell’impresa e che sono causalmente slegate dallo stato d’insolvenza poi creatosi e intervenuto magari a distanza di anni.

Dal punto di vista normativo, questa teoria fa leva su una lettura sistematica delle disposizioni penali della legge fallimentare, nello specifico attraverso il raffronto tra l’art 216 l.fall. e l’art. 223 (cd. Bancarotta Impropria). Questa norma, rubricata “Fatti di bancarotta fraudolenta”, mentre nel 1° comma richiama i fatti dell’art. 216 cambiando i soggetti qualificati, nel n. 2 del secondo comma prevede l’ipotesi in cui il soggetto “con dolo o con operazioni dolose, cagioni il fallimento della società”. Come può vedersi, qui è previsto un evento che è causalmente legato alla condotta dell’agente, il fallimento è qui l’evento del

reato.

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