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L’applicazione delle pene accessorie nella bancarotta fraudolenta

Giulia Raona
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Il tema di cui si scrive riguarda la questione dell’inflizione delle pene accessorie di cui all’articolo 216, c.4, della legge fallimentare in tema di bancarotta fraudolenta, rimessa dalla Sezione Quinta alle Sezioni Unite.

Il reato di bancarotta fraudolenta, originariamente disciplinato dall’art. 216 l. fall., è oggi previsto dall’art. 322 del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza. Nello specifico, il c.d. Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza fa venir meno i concetti di “fallimento” e “fallito”, introducendo, invece, la nozione di “liquidazione giudiziale”. Si deve tener conto, quindi, ai fini della lettura del presente articolo, dell’adeguamento lessicale, pur non essendo previste sostanziali modifiche della fattispecie penale. 

La pena della reclusione da tre e dieci anni è prevista per l’imprenditore, se dichiarato fallito (“se è dichiarato in liquidazione giudiziale”), che abbia commesso i reati di bancarotta fraudolenta per distrazione o dissipazione, bancarotta fraudolenta documentale o bancarotta fraudolenta post-fallimentare. Inoltre, è punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito (“l’imprenditore dichiarato in liquidazione giudiziale”) che commette il c.d. reato di bancarotta fraudolenta preferenziale.

Accanto alle pene principali, l’art. 216 l. fall. impone l’applicazione, da parte del giudice, delle pene accessorie dell’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e dell’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, per la durata fissa di dieci anni. 

Il dibattito che ha riguardato tali pene era incentrato sulla loro previsione obbligatoria nell’an e in misura fissa nel quantum. Si discuteva, quindi, se pene accessorie fisse e inderogabili risultassero compatibili con i principi di proporzionalità e di individuazione della pena e con la funzione rieducativa della stessa. Proprio in relazione a ciò, si prospettava già da tempo l’illegittimità costituzionale. 

Tuttavia, è solo con sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 216 l. fall. ultimo comma, nella parte in cui prevede la durata delle pene accessorie pari a dieci anni. Ne è conseguita una modifica della disciplina, che ad oggi stabilisce una quantificazione del massimo edittale, fino a dieci anni, e non più una misura fissa. 

Ed è proprio da tale norma che nasce e si sviluppa la questione interpretativa della determinazione del quantum in concreto, questione cui le Sezioni Unite da ultimo, con sentenza 28910 del 2019, hanno dato pronta risposta. 

Nello specifico, la Sez. V rimettente ha prospettato i due orientamenti possibili. 

Secondo la tesi maggioritaria, le pene accessorie delle ipotesi di bancarotta fraudolenta sarebbero da interpretarsi come pene con “durata non predeterminata”. Di conseguenza, abbracciando tale tesi, si ritiene applicabile l’art. 37 c.p., secondo cui suddette pene hanno durata uguale a quella della pena principale. L’interpretazione appena esposta affonda le proprie radici anche nell’assunto secondo il quale una determinazione della pena accessoria svincolata dalla pena principale potrebbe avere effetti pregiudizievoli, essendo permesso che la prima superi nel quantum la seconda. 

Tuttavia, la stessa Sezione V ha prospettato un secondo orientamento, minoritario, sostenuto dalla Corte Costituzionale con sent. 222 del 2018. Secondo tale tesi, le pene accessorie di cui all’articolo 216 ultimo comma devono essere considerate di “durata predeterminata”, il cui quantum in concreto deve essere determinato in applicazione dell’articolo 133 c.p.

 Le Sezioni Unite, in risposta alla questione, hanno enunciato il seguente principio di diritto: “le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.”. Tenendo conto della modifica apportata alla disciplina a seguito della sentenza della Corte Costituzionale, la Cassazione si pone in continuità con la pronuncia del 2018, nel rispetto soprattutto del principio di individuazione della pena. 

 È da sottolineare come i sostenitori della tesi maggioritaria trovassero una stabile conferma nell’ancor precedente pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 134 del 2012), che, nonostante la dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità sottoposta, espressamente anticipava che l’inserimento della locuzione “fino a” avrebbe potuto comportare, fra le possibili soluzioni, l’applicazione dell’art. 37 c.p. per la commisurazione in concreto delle pene accessorie. Tuttavia, tale orientamento si pone in aperto contrasto con la successiva pronuncia della Corte Costituzionale, con la quale è stata sancita l’illegittimità dell’articolo 216 ult. c. l. fall. 

Pertanto, dopo aver criticato gli argomenti a sostegno dell’orientamento da cui risultava l’applicabilità dell’articolo 37 c.p., le Sezioni Unite hanno osservato come il dictum della sentenza della Corte Costituzionale del 2014 sia ormai stato superato dalla successiva pronuncia del 2018. 

Emerge, pertanto, l’intenzione di evitare qualsiasi automatismo nella commisurazione concreta delle pene accessorie, così come la diversa finalità attribuita a pene accessorie e pene principali, con relativa differente determinazione delle stesse; il tutto nel rispetto dei principi costituzionali che permeano il sistema penale.

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