Ilva: una tempesta tutta italiana
Enrico M. Di franco
Quanto sta accadendo in queste settimane a Taranto ha del surreale. L’Italia si dimostra ancora una volta uno stato incapace di gestire e di gestirsi: giustizialismo, capricci politici, poca affidabilità istituzionale, questo è il quadro che emerge all’interno della situazione Ilva. Quadro che, al momento, sembra adatto a dipingere anche la nostra Nazione.
L’Ilva di Taranto è un impianto siderurgico a ciclo integrale, il più grande d’Europa, all’interno del quale avvengono tutti i passaggi che dal minerale di ferro portano all’acciaio. Il fulcro della produzione sono i cinque altiforni, dove viene prodotta la ghisa. Ognuno è alto più di 40 metri e ha un diametro tra i 10 ed i 15 metri.
La storia dell’Ilva è molto complessa: nata come Italsider, dopo la crisi degli anni ’80 viene privatizzata sotto i governi Dini e Prodi. In quegli anni diventa “Ilva”, dal nome latino dell’isola d’Elba, famosa nell’Ottocento per le estrazioni di ferro.
L’Ilva è sempre stata un problema nazionale. I reati ipotizzati sono avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose e inquinamento atmosferico. Il 26 luglio 2012 il gip di Taranto firma il provvedimento di sequestro, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo, e dispone gli arresti domiciliari per otto persone, accusate di disastro ambientale. Tra loro, gli ex presidenti dell’Ilva e l’ex direttore. A seguito di numerose perizie, si riscontra che l’altissimo livello di inquinamento (e di decessi) dell’area circostante – in particolare del quartiere Tamburi – è correlato alle emissioni dell’acciaieria.
È l’inizio di una tragedia tutta italiana: ci si interroga sulla possibilità o meno di continuare a produrre, mentre l’azienda ripetutamente minaccia la chiusura di tutti gli stabilimenti nel caso in cui venisse fermata la produzione.
Dal 2012 ha inizio un iter complesso ed economicamente molto dispendioso per lo stato italiano, volto a salvare l’azienda dalla chiusura. Ciò che più preme allo stato è soprattutto evitare che migliaia di persone perdano il posto di lavoro, tenuto anche – e ovviamente – conto dell’importanza fondamentale che la stessa Ilva ricopre per l’economia italiana.
Nel 2018, la società franco-indiana Arcelor Mittal vince la gara e accetta tutti i vincoli posti dai commissari straordinari al fine di perfezionare il controllo parziale dello stabilimento, assicurando tenuta occupazionale e miglioramenti sull’impatto ambientale del sito. Tutto ciò ad una condizione, ovvero lo “scudo penale”.
L’immunità penale riguarda la responsabilità dei dirigenti e amministratori aziendali, prevedendo la protezione legale dalla commissione di eventuali reati. L’espressione “scudo penale” indica una scelta obbligata, volta ad evitare che i commissari presenti e gli acquirenti futuri subiscano ripercussioni penali per fatti verificatisi negli anni precedenti e ai quali sono estranei.
Lo scudo penale per l’Ilva viene abolito nel 2019 come effetto del Decreto Crescita voluto dal Governo, in quanto “privilegio ingiustificato non previsto per le altre realtà aziendali”. Si scatena così l’ira di Arcelor Mittal, che aveva preso accordi diversi con lo Stato italiano.
Arcelor Mittal fa un passo indietro e recede. L’opinione pubblica si divide: c’è chi pensa che lo scudo penale sia stato un mero pretesto, utilizzato dalla stessa per fuggire da questa situazione, altri ancora ritengono, invece, che cambiando le carte in tavola Arcelor Mittal non abbia più margini per operare in Italia, e che l’unico modo per evitare una condanna certa fosse quello di lasciare lo stabilimento, il cui spegnimento degli altiforni è stato fissato per gennaio 2020.
L’ultima notizia in merito alla questione Ilva risale a pochi giorni fa: la Procura di Milano ha aperto un fascicolo. Più precisamente, la stessa ha avviato un procedimento per verificare se esistano condotte penalmente rilevanti da parte di Arcelor Mittal nella rescissione del contratto d’affitto, considerato, così come ribadito dall’art. 70 del codice di procedura civile, il «preminente interesse pubblico in campo».
Nessuno può esprimersi con certezza sul finale di questa vicenda; da più parti, però, si lamenta una totale assenza di strategia da parte dello Stato italiano, il quale appare sempre più indebolito, fragile e meno affidabile. Che fine farà l’acciaio made-in-Italy? Quali saranno i problemi per la Puglia e per il Sud Italia? Che sorte toccherà ai 15.000 operai dello stabilimento?
Bob Dylan scrisse Blowin In The Wind, uno dei suoi maggiori successi, nel 1962, durante gli anni della guerra fredda prima e della guerra del Vietnam, poi. Sicuramente un momento altamente tragico, così come altrettanto tragica può essere considerata tutta la vicenda che ha colpito lo stabilimento dell’Ilva. Nelle frasi della canzone si possono ritrovare tutta una serie di immagini che facilmente ci riportano a quello che sta accadendo ai giorni nostri: too many people have died, quante persone devono morire, ancora? O ancora, “How many times must a man look up before he can see the sky”, a ricordarci come gli altiforni, giganti ed imponenti, oscurino il cielo di Taranto dalla vista dei 15000 operai impiegati nello stabilimento.
Infine, è di poche ore fa la notizia secondo la quale il Tribunale di Milano avrebbe fissato per il prossimo 27 novembre l’udienza sul ricorso cautelare dei commissari, invitando Arcelor Mittal – si legge in una nota firmata dal presidente dello stesso- “a non porre in essere ulteriori iniziative e condotte in ipotesi pregiudizievoli per la piena operatività e funzionalità degli impianti” dello stabilimento siderurgico.