La crisi del regime 4 bis: la pronuncia della Corte Costituzionale
Lucrezia Marchionni
La lotta alla criminalità organizzata
“'' La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave; e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.”
Questa frase venne pronunciata il 31 agosto 1991 da uno dei più importanti esponenti della lotta alla mafia, il magistrato Giovanni Falcone, che di lì a poco avrebbe perso la vita nella strage di Capaci. Queste poche righe racchiudono al loro interno una questione estremamente complessa che da molto tempo attanaglia il nostro Paese e che tutt’ora non cessa di essere centrale: la lotta alla criminalità organizzata. risposta del sistema sanzionatorio italiano
Il sistema sanzionatorio italiano si adatta alla necessità di sradicare tale fenomeno, penetrato eccessivamente nella società e apparentemente impossibile da sconfiggere, mediante l’elaborazione di una disciplina ad hoc che consenta di trattare in maniera differenziata soggetti che pongono in essere un’attività criminale che deve essere necessariamente distinta, tanto sul piano culturale, quanto su quello criminologico, da altre forme di comportamento delinquenziale.
Tale regime è efficacemente soprannominato sistema del “doppio binario”, ed ha rappresentato nel corso degli anni uno strumento fondamentale per l’azione repressiva in materia antimafia, in particolare per quanto concerne la sanzione della reclusione in carcere. Inoltre, quest’ultimo ha consentito di sostenere adeguatamente il più che essenziale strumento delle collaborazioni con la giustizia.
Questo regime è delineato all’interno dell’articolo 4 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario, il quale, per mezzo di un articolato sistema di preclusioni basato su presunzioni di pericolosità sociale, impedisce l’accesso ai benefici premiali a mafiosi condannati all’ergastolo che non collaborano con la giustizia (situazione perfettamente racchiusa nella formula “ergastolo ostativo”, elaborata dalla dottrina).crisi del “doppio binario”
Nonostante il meccanismo in esame si sia rivelato nel corso degli anni più che efficace nello svolgere una funzione repressiva del sopracitato fenomeno criminale e di incentivo alla collaborazione con la giustizia, possiamo affermare di trovarci di fronte a quella che potremmo definire una “crisi del doppio binario”, originatasi a seguito della sentenza della Corte EDU del 13 giugno 2019. Quest’ultima, rendendo definitiva la sentenza pronunciata sul caso “Viola c. Italia”, ha negato la compatibilità del sistema enucleato all’interno dell’articolo 4 bis della Legge sull’Ordinamento Penitenziario con l’articolo 3 della CEDU, ed ha portato alla ben più recente dichiarazione di incostituzionalità del suddetto articolo da parte della Corte Costituzionale.
L’incompatibilità del 4-bis con l’articolo 3 della Convenzione, che racchiude al suo interno il divieto di tortura e di punizioni degradanti e disumane, trova fondamento nell’idea per cui non è accettabile una totale distruzione delle speranze di riscatto del soggetto sottoposto alla pena dell’ergastolo, dal momento che a quest’ultimo devono essere garantiti un percorso volto alla sua rieducazione e la possibilità di migliorare le proprie condizioni.
Alla luce di ciò, è possibile osservare come vi sia un’analogia di fondo tra la ratio che sta alla base della decisione della Corte EDU e quella posta dalla Corte Costituzionale a fondamento della sua recente pronuncia.
pronuncia della Corte Costituzionale
L’ergastolo ostativo, come definito dalla dottrina, si porrebbe in contrasto con quello che è il principio rieducativo intrinseco nell’ordinamento penale italiano che, perfettamente racchiuso all’interno dell’articolo 27 della Costituzione, garantisce il rispetto dei diritti umani del detenuto e fa sì che si attivi, all’interno del carcere, un percorso tale da permettere il reinserimento del reo all’interno della società, una volta espiata la sua pena.
Il fatto che tale sanzione collida con la finalità rieducativa della pena, adottata all’interno del nostro ordinamento, è ulteriormente accentuato dall’ampliamento dello spettro di reati punibili a norma dell’articolo 4 bis, avvenuto in maniera costante negli anni, che ha comportato la sussunzione nell’ambito di applicazione di tale norma di fattispecie sempre nuove e diverse dai crimini di matrice mafiosa, per i quali tale articolo era stato specificamente elaborato, aprendo le porte ad una finalità che potrebbe essere definita meramente general-preventiva.
Proprio per far sì che la finalità rieducativa della pena, prevista dalla nostra Costituzione e adottata di conseguenza dal nostro ordinamento, venisse rispettata, la Corte si è pronunciata lo scorso 23 ottobre 2019, dichiarando l’incostituzionalità del suddetto articolo nella parte in cui impedisce, per i reati in esso indicati, la concessione di permessi premio a condannati che non collaborano con la giustizia. Come visto sopra, il regime delineato all’interno del 4-bis si fonda su un sistema di presunzioni per cui il fatto che l’ergastolano non collabori con la giustizia è indice inequivocabile di persistenza dei legami con l’organizzazione mafiosa, originando così una presunzione assoluta di pericolosità sociale.
Mediante la pronuncia del 23 ottobre 2019, la Corte ha modificato il sistema di presunzioni del 4-bis, andando a trasformare quest’ultime, precedentemente qualificate come assolute, in presunzioni solamente relative. Pertanto, sarà possibile per il magistrato di sorveglianza superare tale presunzione e valutare caso per caso l’effettiva pericolosità sociale del soggetto condannato, prendendo in considerazione le relazioni del carcere nonché le informazioni e i pareri di altre autorità.
A questo punto non resta che osservare e comprendere se l’applicazione di un meccanismo più confacente a quanto disciplinato dall’articolo 27 della Costituzione possa essere, oltre che una dimostrazione di attenzione al rispetto dei diritti umani, anche un mezzo efficace per la repressione di un fenomeno che da anni affligge il nostro Paese.