Gli untori nel codice penale.
Vittoria Boselli
Nelle scorse settimane si è a lungo parlato del rischio da contagio di un nuovo virus proveniente dalla Cina, il 2019-nCoV, pubblicamente conosciuto come “coronavirus”. Vi è una notevole attenzione mediatica sul caso, con continui aggiornamenti che arrivano da tutto il mondo: si tratta di un argomento che viene approfondito da diversi punti di vista, come i numeri effettivi dei soggetti infettati, l’indicazione dei Paesi colpiti e le misure di prevenzione.
Questo articolo vuole concentrarsi su un aspetto meno esaminato e più attinente alla sfera del diritto: la responsabilità penale da contagio. Il codice penale italiano all’art. 438 prevede la pena dell’ergastolo per chiunque cagioni un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni.
Un’epidemia, in quanto malattia infettiva e contagiosa, è caratterizzata da un’elevata e incontrollabile capacità di diffusione dei germi patogeni. La previsione della pena del carcere a vita rende l’idea della gravità di tale condotta: la ratio legis di una simile disposizione è tutelare la salute pubblica, nel senso di sicurezza della vita e di benessere fisico della collettività.
Cosa succederebbe, dal punto di vista giuridico, se un soggetto infetto tenesse un comportamento tale da portare al contagio di un numero indeterminato di persone? Analizzando la norma sul reato di epidemia nel dettaglio, si evince che, affinché sussista la responsabilità penale per il soggetto agente, si richiede che quest’ultimo agisca con dolo generico, ma è stato ritenuto sufficiente dalla dottrina il dolo eventuale.
L’elemento soggettivo del dolo eventuale si configura quando il soggetto decide di agire, non perseguendo la realizzazione del fatto illecito, ma prefigurandosi come seriamente possibile l’esistenza dei presupposti della condotta o il verificarsi di un evento dannoso come conseguenza dell’azione. La caratteristica fondamentale del dolo eventuale è il fatto che il soggetto, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che ne conseguirebbero, accetta che il fatto possa verificarsi.
Il soggetto animato da dolo eventuale agisce “costi quel che costi”, mettendo in conto la realizzazione del fatto (cfr. Cass. Sez. U., 30 marzo 2010, n. 12433). I tratti salienti del dolo eventuale sono espressi nella “seconda formula di Frank” (dal nome del penalista tedesco che l’ha elaborata nel secolo scorso), secondo cui l’agente deve essersi detto: “sia presente o meno quella circostanza, avvenga questo o quell’altro, io agisco comunque”. Diversamente, si versa in un’ipotesi di colpa con previsione dell’evento (o colpa cosciente), qualora il soggetto agente si sia rappresentato il possibile verificarsi di un evento, ma abbia ritenuto per colpa che questo non si sarebbe realizzato nel caso concreto, poiché, per leggerezza, ha sottovalutato la probabilità del verificarsi dell’evento o ha sopravvalutato le proprie capacità di evitarlo.
I due diversi elementi soggettivi sono molto simili e i criteri distintivi fra questi sono piuttosto cavillosi, al punto che vi è la concreta possibilità di cadere in errore. I giudici di merito e di legittimità hanno dato un contributo significativo per quanto concerne l’individuazione di alcuni indicatori di fatto della presenza del dolo eventuale o della colpa cosciente in capo all’agente.
In particolare, il tema della differenza fra i due elementi soggettivi è stato analizzato in materia di contagio da HIV. Si è infatti ritenuto che si trattasse di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente in un caso in cui l’imputato (sieropositivo) “anche in base al suo modesto livello culturale, aveva maturato la convinzione, poggiante sulla considerazione che il suo stato di salute non aveva negli anni subito alcun processo peggiorativo e godeva tutto sommato di buona salute, che niente di male sarebbe potuto succedere alla moglie” (Cass. Sez. I, 14 giugno 2001, n. 30425, Lucini, in CED Cassazione n. 219952).
Viceversa, la Corte ha ritenuto sussistente il dolo eventuale in un caso di lesioni personali gravissime in cui l’infezione era stata trasmessa da una donna pienamente consapevole della malattia di cui era affetta e della possibilità di trasmetterla al proprio compagno. Secondo la Corte infatti la donna non poteva avere dubbi riguardo al probabile esito letale della infezione da HIV, dato che il marito, tempo prima, era morto di AIDS. Tale quadro ha consentito al giudice di legittimità di affermare che l’agente non solo si era concretamente rappresentato il rischio del verificarsi dell’evento, ma lo aveva accettato, nel senso che si era “determinato ad agire anche a costo di cagionare quell’evento” (cfr. Cass. Sez. V, 17 settembre 2008, n. 44712, Dall’Olio, in CED Cassazione n. 242610).
Quanto stabilito dalla Corte di legittimità in materia di contagio da HIV si può estendere al reato di epidemia ex art. 438 c.p. In questo caso infatti, perché il soggetto infetto abbia agito con dolo eventuale, devono sussistere due elementi fondamentali: lo stesso deve essere consapevole della propria malattia e deve aver agito accettando il probabile verificarsi dell’evento dannoso (ossia, la diffusione dei germi patogeni). Non è quindi necessario che abbia volutamente causato l’epidemia, è sufficiente l’aver ritenuto seriamente possibile la realizzazione del fatto e aver agito accettando tale eventualità.
In termini pratici e realistici, un soggetto infetto che sia arrivato in Italia dalla città epicentro dell’epidemia, il quale al momento della partenza non presentava ancora alcuna sintomatologia e non era quindi consapevole della propria patologia, che nel corso dei propri spostamenti abbia infettato un numero indeterminato di persone, può essere considerato responsabile del reato di cui in epigrafe? Dopo un’attenta analisi, sembrerebbe che il soggetto in questione possa aver peccato di imprudenza, ossia di colpa generica, o al massimo di colpa cosciente, in quanto ha agito con leggerezza.
Al contrario, perché possa ritenersi responsabile per il reato ex art. 438 c.p. (e quindi aver agito con dolo eventuale), tale soggetto ipotetico avrebbe dovuto necessariamente essere cosciente della possibile insorgenza della malattia (manifestando quindi sintomi connessi alla stessa), nonché aver ignorato le possibili conseguenze dannose della probabile diffusione dei germi patogeni.
Appare quindi evidente che il confine fra il dolo eventuale (e perciò l’imputabilità per il reato di epidemia) e la colpa cosciente (che non è sufficiente a configurare una responsabilità penale in questo caso) è sottile: ci vuole davvero poco perché l’elemento soggettivo dall’aver agito con leggerezza, con il risultato dell’esenzione da responsabilità, si trasformi nell’aver operato indipendentemente dalle conseguenze che sarebbero derivate dalla propria condotta, con la conseguente pena del carcere a vita.