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Neurocriminologia: l’influenza dei geni sul comportamento criminale.

 
Alina Rotaru
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Il comportamento criminale e la violenza sono problemi di salute pubblica sempre più rilevanti in tutto il mondo. Numerosi studi e ricerche hanno ampliato il bagaglio di conoscenze a nostra disposizione e hanno mostrato che il comportamento criminale ha una base neurobiologica. Questo ha intensificato l'interesse per la potenziale applicazione delle neuroscienze al diritto penale. Sorgono però domande importanti: quali sono le implicazioni dell’applicazione delle neuroscienze per prevedere il comportamento criminale futuro e proteggere la società? Possono essere utilizzate per prevenire la violenza e calibrare la relativa punizione? Quali sono le questioni etiche?

Da Cesare Lombroso ad oggi.


Il primo a sperimentare un approccio scientifico riguardante la criminologia fu Cesare Lombroso, a fine Ottocento, attraverso gli studi di antropologia criminale. La sua teoria dell’uomo nato delinquente risultò però errata e inadatta al diritto penale. Per un aspetto però Lombroso ebbe ragione: le radici della violenza si trovano nel cervello.


Attualmente, ad occuparsi della rivoluzione del mondo legale a cui può portare l’uso delle tecniche delle neuroscienze per capire e prevenire i fenomeni criminosi è il prof. Adrian Raine (psicologo e docente di Criminologia, Psichiatria e Psicologia presso l’Università della Pennsylvania) in “L’anatomia della violenza”- “Le radici biologiche del crimine”. Il prof. Raine, uno dei più importanti studiosi di neuroscienze criminali, per oltre trent’anni ha compiuto ricerche nell’ambito dell’interazione tra genetica e biologia collegate alla violenza, rimettendo in discussione e dando una nuova prospettiva alle teorie di Lombroso.


Gli studi dell’ultimo decennio
Nell’ultimo decennio, oltre 100 studi di genetica comportamentale basati su diversi modelli sono arrivati alla conclusione per cui effettivamente esiste una base genetica significativa per il comportamento antisociale e aggressivo. 


La ricerca si è concentrata maggiormente sull’identificazione di geni specifici che determinano il rischio di avere un comportamento antisociale. 


Le scoperte hanno evidenziato come in realtà il contributo di ogni singolo gene al comportamento criminoso sia piuttosto piccolo e, allo stesso tempo, che l’influenza deriverebbe da una combinazione di un grande numero di varianti geniche che aumenterebbero significativamente il rischio che si manifesti un comportamento aggressivo. 


L’ambiente gioca un ruolo altrettanto influente. In effetti, alcune varianti genetiche conferiscono il rischio di comportamento antisociale solo in presenza di particolari fattori di rischio ambientale, come gli abusi nella prima infanzia e una cattiva genitorialità.


La ricerca nel campo dell’epigenetica ha dimostrato dunque come l’ambiente possa influenzare il funzionamento dei geni espresso in un individuo in specifiche aree del cervello, giungendo così ad una scoperta che appare in grado di mettere in discussione gli argomenti a sostegno del determinismo biologico.


È stato anche riscontrato che fattori di rischio per la salute, in combinazione con fattori di rischio sociale, sono associati ad una maggiore probabilità che un bambino sviluppi una condotta antisociale e un comportamento aggressivo.  


Ad esempio, le complicazioni alla nascita e il rigetto materno del bambino nel primo anno di vita, sono fattori che sono risultati determinanti per la commissione, in età adulta, di reati violenti perpetrati da soggetti appartenenti ad un campione di popolazione danese. Questi risultati sono stati replicati negli Stati Uniti, Canada, Svezia e Finlandia con riguardo a reati commessi da individui adulti usando la violenza, e alle Hawaii e Pittsburgh rispetto all’antisocialità infantile.


Altri studi, invece, hanno mostrato la sussistenza di un collegamento tra complicazioni alla nascita ed esternalizzazione dei problemi comportamentali nei bambini. 


L’imaging cerebrale ha mostrato come un funzionamento ridotto nel lobo frontale del cervello e dell’amigdala sia correlato a comportamenti antisociali e violenti.  La possibilità di una connessione causale tra una struttura alterata del lobo cerebrale frontale, da un lato, e criminalità e/o o violenza dall’altro, è stata evidenziata da studi neurologici che hanno dimostrato come un trauma cranico in individui apparentemente normali possa causare l’insorgenza di comportamenti antisociali disinibiti. Ad esempio, sono stati trovati livelli più elevati di aggressività in veterani di guerra che avevano subito ferite penetranti alla testa localizzate nella corteccia prefrontale.  


In un caso particolarmente eclatante, un tumore nella regione orbitofrontale ha preceduto l’inizio della pedofilia in un individuo; dopo la resezione del tumore, il comportamento della persona è tornato alla normalità. 


Neurocriminologia e sistema giudiziario
La neurocriminologia ha punti di incontro con il sistema giudiziario su tre livelli: prevenzione della criminalità, previsione della recidiva e punizione del reo. 


Se si dimostrasse la capacità dei fattori biologici di prevedere la violenza futura, al di là delle previsioni basate sulle variabili sociali, anche i più scettici sulla prospettiva neuroscientifica riguardo il crimine dovrebbero essere d’accordo sul fatto che la neurobiologia abbia un valore aggiunto. Il fatto che circa il 50% delle variazioni nel comportamento aggressivo e antisociale possa essere spiegato da influenze genetiche potrebbe essere un motivo convincente per l’uso delle informazioni biologiche, allo scopo di migliorare la previsione e la prevenzione della violenza. La ricerca nella prevenzione è abbastanza carente al momento, ma sappiamo che a livello psicofarmacologico un'ampia gamma di farmaci, inclusi antipsicotici, stabilizzatori dell'umore, stimolanti e antidepressivi, è efficace nel ridurre il comportamento aggressivo nei bambini e negli adolescenti. Nonostante questi risultati, vi sono pochi studi sistematici sull'efficacia a lungo termine dei farmaci o sulla loro applicazione agli individui autori di reato.


Essendo la neurocriminologia in grado di identificare fattori di rischio biologico che forniscono una conoscenza approfondita, al di là delle variabili tradizionali attualmente utilizzate nelle valutazioni della pericolosità, impiegando quest’ultima come strumento di previsione della violenza, si otterrebbero considerevoli vantaggi in termini di prevenzione di reati. Peraltro, supponendo che i dati neurobiologici possano migliorare in modo affidabile l'accuratezza di tali previsioni, potrebbe essere considerato eticamente discutibile non utilizzare tale conoscenza. D’altro canto, uno sviluppo in questo senso solleverebbe altrettante importanti questioni etiche. Il potenziale dell'estensione futura di tale previsione per gli autori di reati, per quanto riguarda la possibilità di una recidiva, e per gli individui incensurati, inclini in futuro a commettere reati, è una preoccupazione importante date le gravi violazioni della libertà personale che potrebbero derivare da falsi positivi, ovvero individui non pericolosi che si prevede siano a rischio di commettere crimini. 


La punizione si basa sull’effettivo livello di responsabilità che può essere riconosciuto in capo ai singoli individui. Le analisi neurobiologiche possono essere d’aiuto al fine di capire se gli autori di un reato siano veramente responsabili del loro comportamento e, in caso affermativo, in che misura. Attualmente in Italia l’imputabilità e la punibilità dipendono dalla capacità d’intendere e di volere del reo. Uno sviluppo futuro potrebbe riguardare l’analisi dei fattori di rischio neurobiologici i quali, combinati con fattori ambientali e sociali, potrebbero portare dunque alla diminuzione della responsabilità penale.


Lo studio condotto dal prof. Kiehl
Lo studio condotto dal prof. Kent Kiehl (uno dei massimi studiosi della neurobiologia della mente criminale, autore del libro “The Psychopath Whisperer” – “L’uomo che sussurrava agli psicopatici”) è tra i più importanti al mondo. Kiehl ha raccolto le immagini dell’attività cerebrale di oltre tremila criminali incarcerati negli USA, grazie ad un apparecchio di risonanza magnetica, il Mind Mobile MRI System. Grazie ad esso è stata acquisita una quantità enorme di immagini, immagazzinate nel più grande archivio di neuroscienze forensi del mondo.


Le numerosissime immagini di risonanza magnetica hanno mostrato un’attività minore nei circuiti del sistema limbico, responsabile della gestione e del controllo delle emozioni che risultano altamente compromesse nelle persone analizzate. Il prof. Kiehl ha voluto sottolineare la funzione preventiva dell’analisi e delle ricerche in questo campo, in quanto curando e allenando la zona del cervello malfunzionante è possibile recuperare la funzione ad essa associata, soprattutto nei soggetti in giovane età, nei quali il cervello non è completamente formato.


Conclusioni
La ricerca neurocriminologica in particolare, e le neuroscienze in generale, non sono ancora in grado di operare cambiamenti immediati e radicali nella previsione, prevenzione e punizione dei comportamenti criminali. Negli Stati Uniti il risultato delle analisi neurocriminologiche potrebbe essere inserito come fattore attenuante per gli imputati passibili di pena capitale. I progressi della genetica molecolare hanno, in teoria, il potenziale di chiarire e identificare fattori genetici specifici che potrebbero predisporre al crimine in futuro, ma attualmente la genotipizzazione degli individui per prevedere la violenza futura è limitata. Nonostante le difficoltà nel determinare la causalità, diverse discipline convengono sul fatto che le influenze neurobiologiche predispongono in parte un individuo al reato e possono essere fondamentali nel trittico prevenzione della criminalità- previsione della recidiva- punizione del reo.

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