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Il bene vita e la visione paternalistica del diritto penale

Lucrezia Marchionni
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Con riferimento al bene vita, l’ordinamento penale si è sempre caratterizzato per l’adozione di un approccio segnatamente paternalistico volto, sin dalle prime codificazioni, ad impedire qualsiasi azione che fosse espressione dell’intento anticonservativo dell’aspirante suicida.

Volendo avere una visione d’insieme, si potrebbe richiamare il codice del 1889, noto come codice Zanardelli, il quale già al tempo riservava severe punizioni a chiunque avesse posto in essere condotte considerate lesive del sopracitato bene.

Il concetto di indisponibilità della vita ha mantenuto un ruolo centrale anche con il codice Rocco del 1930, il quale ha conservato un carattere spiccatamente paternalistico, come testimoniato da due norme fondamentali in materia, quali gli artt. 579 e 580 c.p., quest’ultimo rielaborazione della norma preesistente nel codice Zanardelli.

Si definisce paternalistica la norma penale che protegge il soggetto da decisioni in suo danno, punendolo se egli stesso agisce od omette o punendo un terzo se agisce od omette per lui con il suo consenso[1].

La seconda parte della definizione descrive quello che viene comunemente chiamato paternalismo indiretto, in quanto l’azione paternalistica non si rivolge al medesimo soggetto che si vuole tutelare, quanto piuttosto ad un terzo, col fine di evitare che venga cagionato un danno ad un altro individuo.

Si considera dunque come azione indirettamente paternalistica quella che viene svolta dalle norme espresse dagli artt. 579 e 580 del codice penale; in particolare, la fattispecie di aiuto al suicidio si considera un caso paradigmatico di questo tipo di paternalismo.

Il ruolo centrale del tema nel dibattito pubblico

Da tempo ormai il tema del fine-vita e, di conseguenza, dell’indisponibilità del bene vita, tiene banco nel dibattito pubblico, scaturendo nei singoli cittadini sempre più perplessità e sollevando costantemente nuovi interrogativi.

Sono molteplici i casi susseguitisi nel tempo che hanno suscitato nell’opinione pubblica particolare interesse, dovuto da una parte alla delicatezza del tema, dall’altra alla sorprendente capacità che ha l’essere umano di immedesimarsi in queste drammatiche situazioni, fino a chiedersi “e se succedesse a me?”.

Paradigmatici sono stati i casi Welby, Englaro e, più recentemente, Antoniani, i quali hanno scosso particolarmente il pubblico di coloro i quali vedono questi soggetti come i simboli di una lotta volta a far sì che lo Stato ascolti le rivendicazioni dei suoi cittadini.

Il dibattito circa questa tematica non ha sicuramente mancato di avere ripercussioni anche in ambito giuridico: non a caso, il legislatore pare quasi aver “accettato” di riconoscere il diritto a rifiutarsi di vivere una vita che non si ritiene degna di essere vissuta.

Un segno infatti arriva nel 2017 con l’emanazione della legge n. 219, la quale di fatto costituisce una prima disciplina giuridica dell’eutanasia, limitata però al panorama medico–sanitario, facendo sì che il medico risulti esente da responsabilità penale e civile qualora dovesse interrompere le cure del paziente o non somministrarle, come impostogli dall’obbligo di garanzia che lo stesso ha nei confronti di quest’ultimo.

Nonostante questa legge possa apparire come un passo avanti verso la piena regolamentazione del fenomeno, la stessa cela in sé una sorta di vuoto normativo.

La legge fa un riferimento esplicito alla figura del medico, il quale, non ammettendo un’interpretazione di tipo estensivo, comporta l’automatica esclusione dalla disciplina di tutti gli altri operatori sanitari (come ad esempio degli infermieri), nonché dei terzi che, pur non lavorando in ambito sanitario, prestano il loro supporto e affiancano costantemente il malato.

In questo modo, tutte le condotte che vengono poste in essere da questi ultimi, volte all’interruzione delle cure del malato, vengono attratte nell’area del penalmente rilevante, risultando sussumibili nelle fattispecie di cui agli artt. 579 e 580 c.p.

Un importante step, nell’evoluzione legislativa, potrebbe quindi consistere nel prevedere l’esclusione da responsabilità penale anche di tutta questa gamma di operatori che si trovano a contatto con il malato e costituirebbe un ripensamento effettivo e completo del bene giuridico tutelato dalle norme, attenuando nelle stesse la funzione paternalistica.

Un vuoto legislativo?

La mancanza di una disciplina completa in merito si evince in particolare con riferimento alla recente vicenda giudiziaria che vede come protagonista Fabio Antoniani, il quale venne accompagnato da Marco Cappato in una clinica svizzera, col fine di praticare il suicidio assistito, dal momento che ciò non è consentito nel nostro Paese.

A seguito di ciò, Marco Cappato risulta imputato del delitto di Istigazione o aiuto al suicidio,disciplinato dall’art. 580 c.p.

Il giorno 14 febbraio 2018, la Corte d’Assise ha sollevato una questione di legittimità costituzionale per via di una presunta violazione degli artt. 3, 13 co. 1 e 117 della Costituzione nella parte in cui si punisce la condotta agevolativa del terzo, a prescindere dal fatto che questa abbia o meno contribuito causalmente alla determinazione o al rafforzamento dell’intenzione dell’aspirante suicida; nonché per contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 co. 3 della Costituzione laddove non viene differenziata la sanzione prevista per colui che aiuta soltanto il soggetto intenzionato a compiere il suicidio da quella di colui che ne rafforza o determina del tutto il proposito suicidario.

La Corte costituzionale, il 23 ottobre 2018, non si è pronunciata sulla questione, rinviando l’udienza al 24 settembre 2019, invitando anche il legislatore ad adeguare la disciplina giuridica alla necessità di tutela che tale bene presenta, colmando definitivamente il vuoto normativo di cui detto sopra.

In ogni caso, l’intervento della Corte costituzionale non risulta di per sé sufficiente a colmare tale vuoto dal momento che la questione di legittimità si riferisce solo alla norma contenuta all’interno dell’art. 580 c.p., restando così esclusa dalla decisione della Corte la disciplina contenuta all’art. 579 c.p.; si rende in tal modo necessario un intervento del Parlamento affinché si possa definitivamente ampliare la regolamentazione – investendo entrambi gli articoli di un ripensamento alla luce di una nuova concezione del bene vita.

[1] M. ROMANO, Danno a se stessi, paternalismo legale e limiti del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, p. 985

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