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Provenzano c. Italia

Giovanna Cannella
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Con sentenza del 25 ottobre 2018, la Prima sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per aver prorogato il regime di cui all’art. 41-bis della legge sull’ordinamento penitenziario (l. 26 luglio 1975, n. 354) – il cosiddetto “carcere duro” – nei confronti del noto boss mafioso Bernardo Provenzano nel marzo del 2016, proprio qualche mese prima della sua morte, avvenuta nel luglio 2016.

Per inquadrare correttamente la questione giova, innanzitutto, ripercorrere brevemente la vicenda processuale: Bernardo Provenzano viene arrestato nel 2006, dopo oltre quarant’anni di latitanza, e condannato ad una serie di ergastoli per i reati di associazione mafiosa, strage, tentato omicidio aggravato, traffico di stupefacenti, sequestro di persona, detenzione illegale di armi ed estorsione. Con decreto del Ministro della Giustizia del 13 aprile 2006 egli è assoggettato al regime del c.d. “carcere duro”, ai sensi dell’art. 41-bis co. 2 ord. penit. (legge 26 luglio 1975, n. 354), cui rimane sottoposto in via ininterrotta fino al suo decesso nell’estate del 2016, attraverso il susseguirsi di una serie di decreti ministeriali di proroga. Il ricorso alla Corte europea era stato presentato dal figlio e dalla compagna, per conto di Provenzano, nel luglio 2013, i quali avevano lamentato il fatto che quest’ultimo non avesse ricevuto cure mediche adeguate alle sue gravi condizioni di salute e che la prolungata soggezione allo speciale regime carcerario di cui all’art. 41-bis risultasse incompatibile con il continuo deteriorarsi del suo stato fisico e mentale, violando pertanto l’art. 3 della CEDU.

La disposizione di cui al co. 2 dell’art. 41-bis nel 1992, introdotta, dopo la nota e tragica strage di Capaci, dal c.d. decreto antimafia Martelli-Scotti (d.l. n. 306/1992, convertito dalla l. 7 agosto 1992, n. 356), sancisce che, laddove ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, il Ministro della giustizia possa sospendere in tutto o in parte, anche a richiesta del Ministro dell’Interno, l’applicazione delle garanzie e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario nei confronti di detenuti condannati per particolari delitti di cui al primo periodo del co. 1 dell’art. 41-bis[1] ovvero “per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso”. Si tratta dunque di uno speciale trattamento detentivo, rivolto a soggetti condannati per reati di stampo mafioso ovvero terroristico, che comporta la perdita o sospensione di molti benefici che l’ordinamento penitenziario riserva ai detenuti comuni, quali l’abbandono di un programma di “risocializzazione” e l’affievolimento dei contatti con l’esterno, onde evitare che venga mantenuto un legame con l’associazione criminale. Inizialmente pensata come disposizione temporanea (l’art 41 bis co. 2 avrebbe, infatti, dovuto cessare la sua efficacia trascorsi tre anni dall’entrata in vigore del decreto introduttivo), i vari governi, succedutisi dalla seconda metà degli anni novanta, hanno provveduto, con una serie di proroghe, a mantenerla in vita finché, nel dicembre 2002, è stata definitivamente inserita nella disciplina dell’ordinamento penitenziario dalla legge 23 dicembre 2002, n. 279.

È opportuno specificare che la scelta di optare ovvero prorogare l’applicazione del regime di cui all’art. 41-bis richiede una complessa valutazione da parte dell’esecutivo che deve essere compiuta proprio per evitare di incorrere in una violazione dell’art. 3 CEDU, il quale sancisce il divieto di trattamenti carcerari inumani o degradanti, tutelando la dignità della persona umana senza ammettere alcun tipo di deroga, neppure nel caso di reati commessi da organizzazioni terroristiche o di criminalità organizzata. Tale valutazione deve, infatti, tenere in considerazione tutta una serie di fattori come le circostanze, la durata, gli effetti fisici e mentali, il sesso, lo stato di salute e l’età del soggetto condannato in via definitiva. La norma convenzionale è stata definita dalla stessa Corte EDU come un “principio fondamentale delle società democratiche”[2], oltre ad essere riconosciuta anche a livello internazionale dall’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.

Calato nella realtà carceraria, l’art. 3 CEDU si traduce nel divieto di assoggettare a trattamenti inumani e degradanti, con riferimento alle condizioni di vita e ai trattamenti sanitari, i soggetti che debbano scontare una pena detentiva. La Grande Camera ha infatti sancito, ormai da tempo[3], che le modalità di esecuzione della detenzione carceraria non possano comportare afflizioni ed angosce tali da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza che risulta già insito nella privazione della libertà personale e che la salute e il benessere del detenuto devono essere adeguatamente assicurati tramite la necessaria assistenza medica. Come è stato, infatti, evidenziato in dottrina, “posto che ogni forma di privazione della libertà personale implica un «inevitabile elemento di umiliazione», affinché la soglia minima di gravità che delimita l’ambito applicativo dell’art. 3 CEDU sia superata, è necessario accertare che, nel singolo caso, quelle modalità di esecuzione comportino un’umiliazione ed uno svilimento di «livello particolare» e, in ogni caso, diversi ed ulteriori da quelli connaturati ed ineliminabili”[4].

La pronuncia in commento della Corte europea, pur riconoscendo l’adeguatezza di tutte le cure mediche e assistenziali prestate a Provenzano, ha riscontrato come la decisione di prorogare l’applicazione dell’art. 41-bis, assunta dall’allora Ministro della giustizia con decreto del 23 marzo 2016, risultasse contrastante con l’art. 3 CEDU, in quanto aveva omesso di dimostrare come il detenuto, “nonostante lo stato di deterioramento psichico, sarebbe stato in grado di comunicare con l’associazione, qualora fosse stato collocato in regime ordinario” (§ 147). Il progressivo acuirsi dello stato di salute di Provenzano (che morirà, come si è detto, pochi mesi dopo) avrebbe, infatti, richiesto una motivazione più stringente e dettagliata sulle ragioni a favore della proroga del regime detentivo speciale, posto che, come evidenziano i giudici stessi, anche la documentazione medica aveva sollevato dubbi sulla persistenza della pericolosità del boss mafioso e sulla sua capacità di mantenere significativi contatti con l’associazione criminale (§ 151). In definitiva, la Corte non considera l’applicazione e la proroga del regime di cui all’art. 41-bis di per sé incompatibili con la norma convenzionale (art. 3 CEDU), ma soltanto qualora non risultino giustificate da concrete finalità di prevenzione.

La condanna dell’Italia ha suscitato numerose reazioni di protesta nell’opinione pubblica, nonché molti dubbi sulla compatibilità del regime del 41-bis dell’ordinamento penitenziario con i principi CEDU. Il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma ha, tuttavia, riconosciuto l’importanza di questa sentenza che «evidenzia il rischio di automatismi nella conferma del regime del 41-bis: la pronuncia non condanna l’Italia per le condizioni di detenzioni previste dall’art 41-bis per sé considerato, ma per la conferma del regime del carcere duro dove non ci siano più i presupposti in relazione alle condizioni del detenuto».

[1] Si tratta, ai sensi di tale disposizione, dei “delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo nonché per i delitti di cui agli articoli 416-bis e 630 del codice penale, 291-quaterdel testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborano con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter”.

[2] Così C. eur. dir. uomo, sent. 7 luglio 1989, Soering v. the United Kingdom, par. 88. Nello stesso senso v. anche C. eur. dir. uomo, sent. 18 dicembre 1996, Aksoy v. Turkey, § 62.

[3] Si vedano, ex multis, C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 26 ottobre 2000, Kudla v. Poland, ric. n. 30210/96, § 94; Grande Camera, sent. 11 luglio 2006, Jalloh v. Germany, ric. n. 54810/00.

[4] Così F. Cecchini, La tutela del diritto alla salute in carcere nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Dir. pen. cont., 23 gennaio 2017, p. 21. 

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