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Magistratura e politica: una relazione complicata 
di Federico Moncada

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L’indipendenza e l’autonomia tra il potere politico e il potere giudiziario rappresentano un caposaldo fondamentale dello Stato costituzionale. Negli ultimi anni, però, si è assistito ad un continuo conflitto tra poteri dello Stato, caratterizzato dalla crescente incidenza delle indagini giudiziarie sulle dinamiche della politica.

Secondo Giovanni Falcone “la magistratura ha sempre rivendicato la propria indipendenza, lasciandosi in realtà troppo spesso irretire surrettiziamente dalle lusinghe del potere politico”. Questa affermazione descrive perfettamente il difficile rapporto tra la magistratura e la politica in Italia: gli ultimi trent’anni della storia della Repubblica hanno infatti visto un susseguirsi di vicende giudiziarie, di inchieste, di processi e accuse reciproche, che sembra arduo vedere una possibile soluzione a tale relazione, almeno per il momento.
In uno Stato di diritto e democratico è certamente necessario che il potere politico e il potere giudiziario siano separati: da un lato, la politica deve rispettare l’indipendenza della magistratura, astenendosi da qualsivoglia iniziativa che ne ostacoli o ne impedisca il corretto esercizio; dall’altro, è indispensabile che la magistratura sia a sua volta indipendente, svincolata da possibili ingerenze del potere politico e, pertanto, come prevede del resto lo stesso articolo 104 comma 1 della Costituzione, autonoma da ogni altro potere. 
Naturalmente, il contesto che si analizza non è così semplice e chiaro, ma risulta piuttosto articolato: talvolta è fisiologicamente previsto dall’ordinamento stesso un rapporto tra i poteri. Basti pensare alle nomine dei membri del CSM, per un terzo eletto dal Parlamento in seduta comune (c.d. membri non togati), o alle nomine dei membri della Corte costituzionale, eletti anch’essi per un terzo dei membri dal Parlamento in seduta comune. 

Tuttavia, la realtà che negli ultimi decenni la cronaca giudiziaria ha messo sotto gli occhi dell’opinione pubblica è piuttosto desolante: nessuno infatti è stato escluso dalle inchieste portate avanti dalla magistratura, a partire da sindaci, governatori, partiti politici, fino a parlamentari, ministri e presidenti del consiglio.
Nondimeno, sorge spontanea la questione se le inchieste condotte dalla magistratura siano di natura penale, o, piuttosto, di natura politica. 
Il dibattito, del resto, sta tutto qua: da un lato i politici si definiscono sovente “perseguiti” dalla magistratura solamente per la loro appartenenza a questo o quel partito, per portare avanti un’idea piuttosto che un’altra; dall’altro, gli inquirenti affermavano che la conduzione di inchieste e di indagini non ha nulla a che vedere con le valutazioni politiche dei soggetti, ma rappresenta semplicemente l’esercizio dell’art 112 della Costituzione, che li obbliga ad “attivarsi” non appena si abbia una notizia di reato.

Risulta dunque interessante comprendere come si sia arrivati a questo punto, e come le inchieste più importanti della magistratura abbiano influenzato, in modo irreversibile, la politica italiana, tenendo conto anche della grande risonanza mediatica che ne segue, con veri e propri “processi” portati avanti dai mass media che narrano le vicende giudiziarie, influenzando fortemente l’opinione pubblica.

Tangentopoli: la fine della Prima Repubblica

 

Se si parla di inchieste, non si può non pensare anzitutto a Mani Pulite, l’inchiesta condotta agli inizi del 1992 e portata avanti dal celebre pool formato, tra gli altri, da magistrati come Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Ilda Boccassini. 
L’inchiesta nacque con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa, l’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro di primo piano del PSI italiano, colto in flagrante mentre intascava una tangente da un imprenditore.  I fatti che ne seguirono (troppi per riassumerli esaustivamente), contribuirono alla definizione di quello che sarebbe diventato il più grande scandalo della storia della Repubblica Italiana, cioè Tangentopoli. Di lì a poco, il sistema politico iniziò a sgretolarsi sotto i colpi di avvisi di garanzia, e sotto inchieste per corruzione, traffici di influenze e finanziamenti illeciti per i partiti, che non risparmiarono nessuno, primi tra tutti il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana, ed imprese, come Montedison, Enel e Fiat.
Volto più noto dell’inchiesta è quello di Bettino Craxi, “controparte” principale del pool Milanese, già Presidente del Consiglio, segretario del Partito Socialista e Parlamentare: fu lui ad essere designato come il simbolo dell’Italia corrotta e collusa dell’epoca. 
Nonostante l’opinione pubblica fosse ormai dalla parte dei PM e assai critica nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni, e la parabola politica di Craxi fosse giunta al termine, (si ricordi la contestazione pubblica contro Craxi presso l'hotel Raphael e la fuga ad Hammamet), il segretario non indietreggiò mai: dichiarò pubblicamente che tutto il Parlamento e il mondo politico fosse perfettamente a conoscenza della provenienza illecita dei finanziamenti ai partiti, e che nessuno pertanto poteva definirsi estraneo ai fatti. Si scagliò inoltre pubblicamente contro i magistrati del pool, autori, a suo dire, di un vero e proprio colpo di stato della magistratura: concetti che verranno ripresi più in là da un suo concittadino e amico.

Il processo del secolo

 

Quella di Giulio Andreotti è una delle figure più controverse della storia della politica italiana. È stato protagonista dei momenti più tragici della repubblica, dall’assassinio Moro alle guerre di mafia, fino agli attentati dinamitardi. 

Proprio per la rilevanza e l’ambiguità della figura, al “Divo” (come lo chiamerebbe Paolo Sorrentino) sono stati contestati, dapprima dall’opinione pubblica e dai giornalisti e, in seguito, dalla magistratura, talmente tanti fatti che è difficile tenerne il conto: i rapporti con la loggia P2 e Licio Gelli, il suo coinvolgimento nell’omicidio Pecorelli e, soprattutto, i rapporti con Cosa Nostra. 
Sarà proprio per il suo (presunto) coinvolgimento nelle attività di Cosa Nostra, che Andreotti il 4 marzo 1993 venne iscritto al registro degli indagati per i reati di cui agli articoli 110 e 416 c.p. (concorso esterno associazione a delinquere semplice) e agli articoli 110 e 416 bis c.p. (concorso esterno in associazione mafiosa), e dopo processato, in seguito all’autorizzazione a procedere data dal Senato (in base all’articolo 68 della Costituzione allora vigente). 
La trafila giudiziaria che seguì durò fino al 2004, e vide lo svolgimento di centinaia di udienze, la redazione di migliaia di verbali, e la deposizione di testimoni di spicco (tra cui Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo) con cui, fondamentalmente, il senatore venne accusato di tutto: in particolare, i presunti rapporti di Andreotti con Cosa Nostra variavano dalle relazioni con i politici più rilevanti
dell’isola, primo tra tutti Salvo Lima, che sarebbe stato il tramite tra Andreotti e la Cupola, al suo ruolo di mandante negli omicidi e quello nelle stragi del 1992. 
Nondimeno, a valle del procedimento, Andreotti venne prosciolto da tutte le accuse, con formule assolutorie comprendenti anche il proscioglimento per prescrizione. 
Tuttavia, nonostante le assoluzioni, l’opinione pubblica si mostrò diffidente nei confronti dell’ex presidente: ormai la figura di Andreotti venne identificata come simbolo di un tipo di politica opaca, non trasparente, e portatrice di segreti che l’opinione pubblica era ansiosa di conoscere, ma che probabilmente non conoscerà mai.

Berlusconi e le toghe rosse

Le vicende giudiziarie del “Cavaliere” rappresentano probabilmente l’esempio più paradigmatico del conflitto tra la politica e la magistratura. Dal suo ingresso in politica, cioè agli inizi del 1994, Berlusconi è stato oggetto di innumerevoli indagini e procedimenti, che variano dalle indagini su Fininvest e Mediaset, ai suoi rapporti con Cosa Nostra, fino alle accuse per corruzione.
L’ex Presidente del Consiglio ha sempre contestato la fondatezza delle accuse mosse a suo carico, affermando di essere la vittima di una vera e propria persecuzione da parte della magistratura “rossa”, animata da un disegno politico volto a porre fine alla sua carriera politica. 
Tra gli innumerevoli procedimenti a suo carico, Berlusconi è stato condannato “solamente” nel 2013 per il Processo Mediaset, per i reati di frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita.
Negli altri casi, è stato invece prosciolto con diverse formule assolutorie (spesso per prescrizione), il che ha fatto montare la critica dei suoi sostenitori che vedono tuttora un disegno politico nelle inchieste da parte della magistratura a suo carico. 
D’altra parte, i magistrati hanno sempre rispedito al mittente le accuse del Cavaliere, costatando come in molti procedimenti conclusi con l’estinzione del reato per prescrizione, i fatti contestati a suo carico risultassero comunque riconosciuti come sussistenti dai giudici, e di come la sua attività politica sia stata costantemente accompagna dalla promulgazione di diverse leggi ad personam, finalizzate ad eludere eventuali conseguenze giudiziarie. Il dibattito non sembra volersi concludere, alimentato costantemente da accuse reciproche e controverse novità.

 

Uno scontro quanto mai attuale

 

Negli ultimi anni, lo scontro tra la politica e la magistratura non sembra essersi placato, anzi: il dibattito si arricchisce costantemente di nuove indagini e scandali che scuotono i palazzi del potere. Si pensi al recente caso delle nomine del CSM, che ha investito diversi politici e magistrati per presunti reati di corruzione e traffico di influenze, uno tra tutti l’ex PM ed (ex) membro togato del CSM Luca Palamara; ai procedimenti che hanno investito l’ex ministro degli interni Matteo Salvini per sequestro di persone, in seguito alle sue controverse politiche migratorie; alle recenti indagini sulla fondazione Open per finanziamento illecito ai partiti  che ha investito l’ex premier Matteo Renzi.
Solo il tempo e la giustizia daranno le risposte a tutti gli attuali dubbi e interrogativi.
Una cosa però è certa. Come ha affermato Piero Calamandrei: “quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra.”

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