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L’interesse ad impugnare in caso di revoca della misura cautelare nell’ambito del d.lgs. 231/2001

Giulia Raona
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Di recente, le Sezioni Unite, nel caso Romeo Gestioni (Cass., Sez. un., sent. 27 settembre 2018, n. 51515) sono state investite della questione riguardante la persistenza dell’interesse all’impugnazione anche nel caso in cui sia nelle more sia intervenuta la revoca della misura cautelare a seguito della realizzazione delle condotte riparatorie ex art. 17 d.lgs. 231/2001. Secondo la Cassazione, non può essere dichiarata l’inammissibilità de plano dell’appello avverso la misura interdittiva, nonostante essa sia stata nelle more revocata, in quanto tale revoca “non determina automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione”.

Nel caso Romeo Gestioni, è stata applicata la misura cautelare di tipo interdittivo consistente nel divieto di contrattare con la pubblica amministrazione per un anno, successivamente revocata per l’adempimento delle condotte riparatorie post factum ai sensi dell’art. 49 del citato decreto (il c.d. ravvedimento operoso). Per l’intervenuta revoca, il Tribunale del riesame, con provvedimento adottato inaudita altera parte, ha dichiarato inammissibile l’appello per carenza dell’interesse.

La parte, dunque, ha proposto ricorso per cassazione: la revoca, infatti, era fondata sulla verifica delle condotte riparatore e non, invece, sulla valutazione dell’originaria sussistenza di gravi indizi e esigenze cautelari. Per questo, la difesa ha dedotto l’erronea applicazione dell’art. 127 c. 9 c.p.p.: il Tribunale del riesame avrebbe dovuto valutare la sussistenza dei presupposti per l’adozione della misura nel contraddittorio tra le parti.

La questione viene rimessa, quindi, alle Sezioni Unite.

Nello specifico, comunque, l’art. 610 c. 5-bis c.p.p. prevede la possibilità da parte della Corte di Cassazione di dichiarare determinate cause di inammissibilità (c.d. formali) senza formalità di procedura. La Suprema corte, però, evidenzia come “la carenza di interesse all’impugnazione non rientra tra le cause di inammissibilità di immediata rilevazione, secondo la stessa classificazione riveniente dal richiamato dettato codicistico”.

Il ragionamento della Corte si sviluppa tenendo conto della specialità della disciplina delle misure cautelari a carico dell’ente. L’art. 52 d.lgs. 231/2001 prevede che il sistema di impugnazione delle misure cautelari a carico dell’ente si costituisca esclusivamente di appello e di ricorso per cassazione, con l’applicabilità del modello ex art. 127 c. 9 c.p.p. (dichiarazione di inammissibilità anche senza formalità di procedura).

La Corte poi rileva che la disciplina delle misure cautelari reali prevede un contraddittorio anticipato, tanto che l’art. 47 c. 2 del decreto prescrive che “se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza”. La ratio è evidente: permettere all’ente di chiedere la sospensione della misura, al fine di porre in essere le condotte riparatorie ex art. 49 d.lgs. 231/2001, e di ottenere, in caso di corretto adempimento, la revoca di tale misura, oltre che favorire l’ampliamento del quadro cognitivo del giudice.

È rilevante ricordare che le condotte messe in atto dalla Romeo Gestioni S.p.A. si sono concretizzate nel deposito di una cauzione, nel versamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento e in una modifica significativa del modello di organizzazione.

La decisione della Cassazione ha sottolineato che, proprio perché l’ente ha rimosso le cause dell’illecito ancor prima che questo fosse accertato, sussiste l’interesse a proporre appello e tale interesse è certamente attuale, in quanto, se fosse dichiarata l’illegittimità originaria della misura, l’ente potrebbe ottenere la restituzione di quanto versato e potrebbe retrocedere rispetto alle modifiche attinenti all’organizzazione.  Evidenzia la Corte che l’ente potrebbe altresì ottenere la “rimozione di ulteriori conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della misura”, con riferimento alla comunicazione del provvedimento applicativo della misura interdittiva all’autorità di controllo o di vigilanza.

L’interesse, poi, permane anche in ordine alla verifica dell’originaria legittimità della misura interdittiva.

La Corte ribadisce come l’istanza di sospensione della misura e quindi la volontà di porre in essere le condotte riparatorie “ben può dipendere dalla primaria esigenza dell’ente di scongiurare l’applicazione di misure interdittive, implicanti la stasi del ciclo produttivo e la paralisi dell’attività economica”. Quindi, “la disponibilità della società ad adottare un determinato modello organizzativo non implica la rinuncia a contestare la legittimità del provvedimento impositivo. Oltre a ciò, deve considerarsi che la società, pure a fronte della intervenuta revoca, ove non perpetuasse i comportamenti ritenuti virtuosi, si vedrebbe esposta al rischio di una nuova richiesta cautelare”.

Inoltre, la sentenza sottolinea che l’interesse all’impugnazione nel procedimento penale non è tanto legato al concetto di soccombenza (come avviene in ambito civilistico), ma più ad una concezione utilitaristica; è finalizzato quindi ad ottenere una decisione più vantaggiosa. Per di più, i requisiti di concretezza e attualità dell’interesse devono sussistere fino all’emanazione della decisione, proprio affinché possa configurarsi un effettivo vantaggio per la parte, altrimenti si avrebbe una carenza di interesse sopraggiunta a seguito di una valutazione negativa della persistenza dell’interesse all’impugnazione al momento della decisione.

Pertanto, la Suprema Corte enuncia i seguenti principi di diritto: “l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001, poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio delle parti, previamente avvisate; la revoca della misura interdittiva disposta a seguito di condotte riparatorie poste in essere ex art. 17 d.lgs. 231 del 2001, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina automaticamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione”.

Il rilievo di tale pronuncia non può prescindere da una considerazione in ordine alla compatibilità dell’istituto del ravvedimento operoso, ex art. 49 d.lgs. 231/2001, con la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 c. 2 Cost.

Infatti nonostante l’ente, la cui responsabilità è oggetto di accertamento, venga considerato imputato, scarse risultano le garanzie a sua tutela. Pertanto, una decisione di tale calibro si colloca nell’ottica di un’espansione proprio di tali garanzie e si pone in linea con la ratio che permea la disciplina della responsabilità da reato degli enti, che assegna un rilevante peso all’esigenza di una cognizione completa (con la previsione di istituti quali la riunione del procedimento per l’illecito amministrativo dell’ente al procedimento penale), talvolta a discapito di altre esigenze, quali quelle di celerità.

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