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Illeciti a regola d’arte: le nuove frontiere delle archeomafie

 
Maria Vittoria Zovatto
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L’Italia, ad oggi, è il primo paese al mondo per traffico illecito di opere del patrimonio artistico e culturale. Ciò nonostante, il codice penale italiano continua a non prevedere un’apposita disciplina per il furto di opere d’arte e, più in generale, per i reati contro i beni culturali. 
L’obiettivo di questo articolo consiste nell’esplicare il ruolo assunto dalle associazioni criminali di stampo mafioso, le c.d. archeomafie, nelle fasi di trafugazione, smercio e commercializzazione dei beni del patrimonio culturale. Questo rappresenta, infatti, un settore particolare, grazie al quale le compagini mafiose riescono non solo ad occultare i proventi derivanti da altre categorie di illeciti, ma anche ad ottenere facili e rapidi guadagni. 
Considerata l’unicità del patrimonio culturale italiano, si rende, pertanto, necessaria l’introduzione nell’ordinamento di norme giuridiche in grado di salvaguardare l’eredità storica ed artistica del nostro Paese.

Il traffico illecito di opere d’arte: come annientare il patrimonio artistico e culturale di un popolo

L’Italia è considerata il maggior fornitore a livello mondiale per il traffico illecito di opere d’arte, data non solo la rilevanza del patrimonio nazionale, ma anche e soprattutto la qualificazione, da parte dell’Unesco, di molti tra i suddetti beni come patrimonio mondiale dell’umanità.
Secondo una stima effettuata dalla Commissione Parlamentare Antimafia, il valore economico dei beni trafugati mediante scavi clandestini e furti, nel quadriennio 2014-2017, giungerebbe a superare i duecentosettanta milioni di euro.
La Relazione Conclusiva della Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre associazioni criminali, anche estere, approvata dalla Commissione in data 7 febbraio 2018 ha evidenziato come la questione degli attacchi al patrimonio culturale nazionale, con conseguente commercializzazione dei beni che ne fanno parte, continui a persistere e a conservare una dimensione particolarmente estesa.
Sempre nel quadriennio 2014-2017, infatti, il Comando Tutela Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri (TPC) ha recuperato oltre 90 mila beni, tra antiquariali, archivistici e librari ed ha proceduto alla requisizione di più di 130 mila reperti archeologici, per un valore complessivo stimato intorno ai 270 milioni di euro.
Dalle indagini che sono state effettuate è emerso che il trafugamento di reperti storici da siti archeologici, o la sottrazione di dipinti da musei o collezioni private, solo in un numero molto esiguo di casi avvengono ad opera di ladruncoli improvvisati.
Al contrario, è non poco frequente che l’appropriazione illegittima di beni di elevato valore artistico e culturale venga conclusa da organizzazioni criminali ben articolate, in grado di coordinare le fasi di trafugamento del bene e, nel contempo, dello smercio internazionale e delle risultanti attività di riciclaggio.
In altri casi, invece, le operazioni di commercializzazione dei beni vengono realizzate da esperti mercanti d’arte.

 

L’impatto criminale delle “archeomafie”

Il traffico illecito di beni culturali, dunque, comporta un notevole circuito di affari criminosi, i quali si andranno poi ad intrecciare con altre attività delinquenziali, quali, ad esempio, il traffico di armi e di sostanze stupefacenti.
I beni del patrimonio artistico e culturale vengono sempre più spesso impiegati dalle associazioni criminose come forma di finanziamento e riciclaggio. Le aste private, le gallerie e le collezioni private continuano ad essere sature di vasi greco-etruschi, di marmi romani e bronzi dalla provenienza ignota, mentre i paesi del Mediterraneo Sud-Orientale mantengono la loro ormai solida fama di nazioni maggiormente coinvolte nel contrabbando di opere culturali.
Il settore dell’arte è segnatamente congeniale alle infiltrazioni criminali, in quanto si tratta di un ambito scarsamente regolato e, nel contempo, estremamente fruttuoso.
Legambiente, con il Rapporto Ecomafie 1999, ha coniato il termine “archeomafie”, il quale viene oggi comunemente impiegato dalla dottrina al fine di porre in evidenza i caratteri peculiari di questo fenomeno, con lo scopo di riferirsi a tutte le organizzazioni criminali dedite al traffico illecito di opere d’arte, con conseguenti esportazione e commercializzazione di beni illegittimamente trafugati.
Il modello organizzativo tipico delle archeomafie segue uno schema piramidale, alla base del quale si trovano gli affiliati, oltre ad eventuali criminali comuni non facenti parte della compagine associativa, i quali concretizzano i reati pianificati. Tali reati consistono, prevalentemente, nel saccheggio e nella trafugazione di aree archeologiche o nella depredazione di dipinti di alto controvalore commerciale.
Dopo essersi appropriata del bene, l’associazione criminosa si serve di intermediari, ossia di soggetti altamente qualificati in ambito storico e artistico, come, ad esempio, i mercanti d’arte.
Questi ultimi si adoperano al fine di introdurre la res sul mercato, attribuendole una parvenza di liceità.
Nella maggior parte dei casi, tale manovra viene attuata tramite il ricorso alle Case d’Asta, poiché esse fanno sì che il bene venga rivenduto senza effettuare indagini specifiche e minuziose sulla sua provenienza.
Infine, al vertice di un’organizzazione così fortemente gerarchica e definita, sono situati musei stranieri ovvero facoltosi collezionisti e prestigiose gallerie d’arte, pronti ad acquisire il bene, nonostante la dubbia provenienza dello stesso. È talora possibile che i membri della compagine criminale, insieme ad eventuali soggetti estranei all’organizzazione, scelgano di ricorrere al mercato dell’arte al fine di insabbiare la realizzazione di illeciti derivanti dall’acquisto di opere d’arte non tracciate.

 

La tutela penale del patrimonio culturale tra proposte di legge incompiute e responsabilità del mercante d’arte

La convenienza di un affare criminoso produce, come conseguenza, un interesse sempre maggiore della criminalità organizzata verso la commissione di illeciti nel settore artistico ed archeologico.
Ciò può essere facilmente esplicato considerando che, a fronte di facili e proficui guadagni, il principale, se non l’unico, strumento normativo è costituito dal Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale non prevede sanzioni adeguate.
Il Titolo II della Parte IV del Codice disciplina, giustappunto, le sanzioni penali che, tuttavia, constano essenzialmente di arresti e ammende.
Vari sono stati i tentativi di sottoscrivere una disciplina ad hoc che non solo andasse ad accrescere le sanzioni applicabili, ma anche punisse tutte le condotte antecedenti e conseguenti la depredazione della res.
Tuttavia, l’iter di esame del disegno di legge S.882, d’iniziativa dei deputati Orlando e Franceschini, nonostante l’approvazione da parte della Camera dei Deputati in data 18 ottobre 2018, non è stato completato.
Dunque, in assenza di una disciplina completa ed effettiva volta alla regolazione del fenomeno, risulta opportuno rintracciare un’eventuale responsabilità penale in capo all’intermediario, distinguendo l’ipotesi in cui lo stesso operi congiuntamente alla criminalità organizzata da quella in cui presti un contributo occasionale o, addirittura, agisca autonomamente.
Qualora il mercante d’arte assolva abitualmente il compito di occultare l’illegittima provenienza del bene e di commercializzarlo nel mercato tramite l’uso di un pedigree che lo renda conforme alla legge, risulterà, dunque, evidente che il mercante si sia inserito nella compagine associativa in maniera stabile e non occasionale.
Pertanto, egli risponderà del reato di cui all’art. 416 c.p.(associazione per delinquere) o 416 bis c.p. (associazioni di tipo mafioso anche straniere), a seconda che l’associazione ricorra o meno all’intimidazione al fine di portare a termine uno dei propositi delineati ex art. 416 bis c.p.
Tenendo, inoltre, presente che l’attività del mercante d’arte ricomprende anche l’iniziativa di contraffazione e mascheramento della res delittuosa e della collocazione di questa nel mercato dell’arte, ci si chiede se all’intermediario possa essere ricondotta la fattispecie di cui all’art. 648 bis c.p., la quale sanziona l’attività di riciclaggio di tutti i beni provenienti da un delitto non colposo.
Molto più macchinoso, al contrario, risulta l’inquadramento della posizione del mercante d’arte che acquisti in autonomia e per fruizione personale, direttamente dai trafficanti, il bene furtivamente sottratto.
Si potrebbe, nel caso di specie, configurare una responsabilità penale con riferimento ai reati di ricettazione e riciclaggio, a seconda che il mercante stesso attribuisca o meno una provenienza lecita al bene o, addirittura, qualora egli risulti materialmente autore dell’illecito, di auto-riciclaggio (fattispecie introdotta nell’ordinamento dalla L. n. 186 del 2014 all’art. 648 ter 1 c.p.).
Tuttavia, quest’ultima appare come un’ipotesi molto rara, poiché è inconsueto che un mercante d’arte, normalmente situato in una posizione sociale di rilievo, si renda autore materiale di un furto d’arte.
Concludendo, appare fondamentale osservare come la necessità di fornire una tutela penale adeguata al patrimonio culturale nazionale ed internazionale, inteso sia in senso materiale sia immateriale, consegua dai valori sanciti nell’art. 9 della Costituzione Italiana, il quale annovera espressamente il patrimonio storico ed artistico tra i beni meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento.

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